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DWIKI DHARMAWAN Rumah batu Moonjune Records 2018 INDN

Il pianista/tastierista indonesiano aveva già fatto parlare molto bene di sé nel 2016 con il doppio album “Pasar Klewer”. Questo suo terzo lavoro su Moonjune Records rimane all’interno delle prerogative inusuali della label, ormai sempre più spinta in ambito di sperimentazioni jazz/fusion. “Rumah batu” è stato inciso per la maggior parte negli studi de La Casa Murada, sede di altre incisioni dell’etichetta statunitense, tanto da influenzare anche il nome di quest’ultima uscita: tradotto, infatti, il titolo vuol dire proprio “La casa di piera”, ben illustrata dalla bellissima copertina ad opera di Aga Dilaga.
Stavolta Dharmawan si dimostra ancora più introspettivo e a tratti sperimentale, accompagnato da due figure ormai fisse come il bassista Yaron Stavi ed il batterista Asaf Sirkis, a cui si aggiungono altri musicisti internazionali come il bassista fretless spagnolo Carles Benavent (sì, album con due bassisti, entrambi molto coinvolti) ed il chitarrista franco-vietnamita Nguyên Lê. A questi si aggiungono altri ospiti indonesiani come il percussionista Ade Rudiana o il flautista Sa’at Syah, i quali aprono l’iniziale “Rintak Rebana”; dieci minuti e mezzo in cui le melodie sembrano abituare l’ascoltatore con il loro andamento, salvo poi cambiare repentinamente, come nel momento in cui Nguyên Lê si lascia andare ad un assolo molto duro (occorre ricordare, tra le tante pubblicazioni soliste, il suo tributo a Jimi Hendrix). Syah si rende protagonista anche nella seguente “Paris Barantai”, non solo col suo flauto ma anche con la voce, per una traccia in cui il jazz tanto poetico quanto deciso incontra con spontaneità la cultura musicale indonesiana. Un aspetto particolarmente pronunciato su “Impenan” – dove dominano incontrastati i vocalizzi della cantante Dewi Gita sugli spazi infiniti descritti dal flauto – e soprattutto su “Janger”; si tratta di un brano della tradizione balinese e arrangiato da Dharmawan, aperto dalle percussioni indonesiane gamelan e poi caratterizzata da affascinanti assoli fusion alla chitarra e al pianoforte. Tributo esplicito alla propria terra che continua con la suite che dà nome all’album, divisa in due parti dalla durata complessiva di circa venticinque minuti; la prima metà è infatti tratta dalla tradizione dell’isola di Sulawesi (devastata a fine settembre 2018 da terremoto e conseguente tsunami…) e tra i credits non si capisce chi sia a cantare. Forse lo stesso Syah e/o un certo Smit, che con il suo flauto comparirà secondo le note di copertina nella seconda metà, anche alla voce. La parte 2 è più sperimentale rispetto alla prima e forse anche basata su quella improvvisazione che caratterizza negli ultimi anni certe pubblicazioni della Moonjune.
Dopo questa articolata parentesi, si ritorna sui precedenti scenari con “Samarkand”, dove inizialmente si sente l’influenza dettata su certa musica etnica da Pat Metheny, prima che un crescendo di note limpide caratterizzi i botta e risposta tra sei corde e tasti d’avorio. La conclusiva “Selamatkan Orang Utan” (alcuni esemplari di orango compaiono tra le rocce in copertina) evoca le melodie serene e spensierate tipiche del Sud-Est asiatico, tra voci onomatopeiche, flauto acuto e pianoforte. Una conclusione felice, che porta a compimento un contenuto musicale più introverso e meno immediato rispetto alla pubblicazione precedente, presentando la necessità di ulteriori ascolti per cogliere i tanti elementi presenti. Ma ancora una volta, non vi è alcun dubbio sull’ottima qualità della proposta.



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Michele Merenda

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