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SALUKI Amazing games Apollon Records 2018 NOR

Un pezzo forte del catalogo della Compendium, etichetta discografica specializzata in Prog e Jazz ben nota ai collezionisti, nonché primo negozio di dischi alternativi in Norvegia, era sicuramente rappresentato dall'eponimo album di esordio dei Saluki che vide la luce nel 1977 e che riluceva per la sua ammiccante miscela di jazz e prog dalle vistose inflessioni funky. Un elemento di sicuro interesse era dato dalla presenza di Freddy Dahl, cantante e chitarrista noto per aver militato nei più famosi Junipher Greene, Ruphus e George Keller Band. Il gruppo era poi completato da validi elementi che erano Peter Berg Nilsen (ora noto come Alois Symington) alla voce e alle percussioni, Sverre Beyer (che risponde attualmente al nome di Ginn Jahr) al basso e alla voce, Kjell Rønningen alle tastiere e alla voce e Finn Sletten alla batteria, che verrà comunque presto sostituito da Bjørn Jenssen. L'occasione per farsi notare giunse nel 1976 quando il gruppo fu invitato a sostituire Terje Rypdal allo Slottsfjell festival. Fu proprio allora che venne tirato fuori il nome Saluki, come la razza dei cani posseduti dal batterista che erano spesso un rumoroso elemento di disturbo per l’attività della band.
Il contratto con la Compendium arrivò dopo l'esibizione al festival e la registrazione dell'esordio, uscito il 30 Marzo del 1977, fu portata a termine in appena un paio di settimane. Fra gli ospiti è sicuramente da segnalare Sylvi Lillegaard dei Ruphus alla voce. Altra curiosità è poi rappresentata da una splendida e vivace versione di ”Take the road across the bridge”, un pezzo che Dahl scrisse per i Junipher Greene e che compare sul celebre “Friendship” del 1971. Nell’estate del 1977 era già pronto un nuovo album che però non fu mai pubblicato perché la Compendium nel frattempo fallì e ne conseguì oltretutto lo scioglimento della band con Rønningen e Jenssen che confluirono nei Ruphus.
Il 2017 è l’anno del ritorno dei Saluki che si riuniscono quasi al completo per festeggiare i quaranta anni dalla pubblicazione del loro esordio ricominciando a suonare insieme. L’album eponimo è stato rimasterizzato e ristampato per l’occasione mentre i nastri del secondo LP che mai videro la luce rappresentano ancora un conto aperto col destino che non viene completamente saldato neanche questa volta dal momento che questo “Amazing Games” è stato registrato tutto da capo nella primavera del 2018 ed alcuni pezzi sono stati oltretutto sostituiti con altri brani non inclusi nel disco originale ma provenienti comunque dal repertorio del 1977.
La nuova formazione vede la partecipazione di Trond Tufte, entrato come chitarrista aggiuntivo, e di Gunnar Berg-Nielsen alla batteria a sostituire il veterano Bjørn Jenssen. La registrazione è avvenuta dal vivo in studio con tecniche analoghe a quelle utilizzate negli anni Settanta ed il sound appare anche per questo gradevolmente vintage ed effettivamente mi ci è voluto un po’ prima di capire che non si tratta di roba originale del periodo ma di un rifacimento in piena regola. Il mix fra rock, funk e psichedelia con decise venature sinfoniche è qualcosa che potrebbe collocarsi benissimo sul finire dei Settanta e agli albori degli Ottanta.
Il nuovo album si dimostra un surrogato convincente di quello che poteva essere il gruppo al suo apice creativo rendendoci l’immagine di un’opera leggermente inferiore rispetto al debutto ma di impatto assai piacevole ed interpretata con genuinità e maestria. “Top of the World” parte con le chitarre in prima linea che lasciano presto campo ad un cantato ammiccante, contrappuntato da cori sgargianti e da tastiere lanciate sostenute da un basso in piena evidenza. Melodia, suoni bombastici, cantabilità, aria di festa ed esplosioni funky sono gli ingredienti di questo mix demodé con atmosfere ricostruite ad arte e che sembrano autentiche. La title track parte come una ballad dilatata e melodica che ricorda un po’ i Junipher Greene e che ha instillata un po’ della magia degli Yes per virare verso qualcosa di altrettanto melodico ma di festaiolo e disimpegnato. Talvolta i sentori sono quasi quelli della disco dance, come si può percepire in “Visions in your Mind”, ambito in cui il gruppo però non precipita miscelando molto bene gli ingredienti e mantenendosi perfettamente in bilico fra orecchiabilità, voglia di ballare e sofisticatezza con elementi che fanno volare il pensiero a Blood, Sweat & Tears e Chicago. I fiati vengono usati con più parsimonia mentre l’aggiunta di un chitarrista a pieno titolo viene adeguatamente sfruttata attraverso l’inserimento di assoli.
Fra gli episodi più deboli colloco la centrale “Be Here Now” che tarda molto a decollare e che sfocia verso qualcosa di simile ai Supertramp. “Universal Seed” suona molto come degli Earth, Wind & Fire deprivati dei fiati e risolleva leggermente la media rispetto al brano appena trascorso, con allegre iniezioni di Hammond e abbellimenti chitarristici. “Open Your Eyes” presenta invece un groove più ruvido ed intenso e un’anima più rocciosa seppure stemperata dai soliti cori. “I Sit Beside the Fire” è il pezzo conclusivo e ci riporta su tonalità ovattate e suadenti, talvolta con inserti sinfonici che sfiorano gli Yes e scivola con facilità verso la conclusione di un album che potrebbe essere considerato come una specie di falso storico, ben fatto ma a cui avrei preferito in ogni caso un’operazione autentica di recupero.
Non si può avere tutto ed è comunque apprezzabile l’impegno di musicisti che hanno conservato intatto il loro smalto. Senza alcuna riserva consiglio invece l’acquisto della ristampa dell’eponimo album che rimane un documento valido ed interessante del prog norvegese.



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Jessica Attene

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