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LONDON UNDERGROUND Four Musea Records 2018 ITA

Correva l’anno duemila quando veniva pubblicato l’album omonimo del trio fiorentino, in cui militava anche il batterista/cantante Daniele Caputo, già negli Standarte. Tre anni dopo, su “Through a glass darkly”, dalla medesima band arrivava anche il bassista Stefano Gabbani. Il sound è sempre stato vicino a quel gruppo – a sua volta debitore degli Atomic Rooster –, con i suoi rimandi fortissimamente anni ’70. Ci sarebbero stati in seguito altri cambi di formazione, compresa la fuoriuscita dei due ex-Standarte, un terzo album a distanza di anni, ulteriori re-impasti, rimanendo il solo tastierista Gianluca Gerlini della formazione originaria, il quale si poneva così come l’autentico fulcro dei rinnovati London Underground. Come suggerisce il titolo, questo è il quarto lavoro del terzetto, basato su tastiere-basso-batteria; terzetto che si rifà fin dal monicker alla musica di matrice anglofona (e anglofila), oramai totalmente strumentale. Nel frattempo è tornato Gabbani alle quattro corde, anche se tra gli ospiti risulta citato pure il precedente bassista, Fabio Baini, peraltro adibito “a tutte le parti di basso” (traduzione letterale). Ci sono anche Riccardo Cavaleri per gli sporadici interventi di chitarra sia elettrica che acustica, oltre ad un altro fidato collaboratore come Stefano Negri al sax. La musica, oltre ad essere debitrice delle succitate band, deve molto a Brian Auger, anche perché l’organo Hammond la fa da padrone (oltre comunque alla presenza di mellotron, moog e quant’altro). Non a caso, vi è una cover proprio del tastierista britannico, “Tropic of Capricorn”, il seguito ideale di momenti intensi regalati con “What I say” e soprattutto “Three Men Job”. Ma anche l’inizio segue le medesime coordinate, nonostante queste suonino subito più scanzonate e disimpegnate rispetto ai brani seguenti. L’apertura allegra, con i sei minuti di “Billy Silver”, è bissata dalla seguente “Ray Ban”, un’altra cover, stavolta degli italiani Marc 4. Si trattava di componenti, tra la metà degli anni ’60 e del decennio successivo, dell’Orchestra della Rai. Il pezzo in questione era opera nel 1971 del compositore Stefano Torossi. I quasi sette minuti e mezzo di “At Home” divengono più impegnativi, così come suonano più psichedelici i quattro e mezzo di “The Comete”. Da segnalare “Jam”, in cui non si cede per fortuna alla tentazione del caos improvvisato, ed infine le due bonus, ancora una volta delle cover. La breve “Mercy, Mercy, Mercy” è stata composta a suo tempo da Joe Zawinul (Weather Report) per Cannonball Adderly, mentre “Bumpin’ On Sunset” era una traccia del chitarrista jazz Wes Montgomery (coverizzata nel ’74 anche dallo stesso Brian Auger, casualmente!). Questo è forse il brano migliore, con un finale che sarebbe potuto sfociare in qualcosa di molto potente ma che purtroppo si ferma troppo presto. Peccato, davvero.
Che altro dire, per non apparire ripetitivi? La band di Gianluca Gerlini non si lascia andare a virtuosismi eccessivi, ma l’abilità tecnica e la coesione appaiono incontestabili. La chitarra, quando entra in scena, si limita a far da contorno se non addirittura da riempimento; ma del resto, in una squadra vincente, occorrono sempre quei gregari che dispongano comunque di tutti i fondamentali utili per l’occasione. La proposta non è certo niente di nuovo ed il revival di quelle atmosfere fatte di tastieroni ruvidi è fortissimo. Riproporre determinati schemi per qualcuno è sempre un bel sentire, per altri è invece una delle varie espressioni dell’inutilità trasposta in musica. Scegliete pure da che parte stare. Possibilmente, senza cedere a condizionamenti di sorta.



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Michele Merenda

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