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FARMHOUSE ODYSSEY Fertile ground autoprod. 2019 USA

La giovane band californiana giunge al suo terzo album in formazione immutata… e questo è già un fattore positivo che fanno ben sperare, dopo i generali apprezzamenti guadagnatisi dal precedente lavoro. Non so tuttavia se ci sia un problema di aridità di ispirazione o meno dietro alla drastica riduzione della durata che registriamo per quest’album il quale non raggiunge i 40 minuti, a fronte dell’ora esatta dei due precedenti. Forse si è trattato solo della volontà della band di concentrarsi su un limitato concept, riguardante un eroe ed il suo “viaggio attraverso il mondo soggettivo dei sogni verso il terreno dell'autotrasformazione”, senza annacquare o espandere eccessivamente la proposta.
Nella musica che la band ci propone in questo lavoro, sono ancora presenti gli elementi individuati in occasione dell’ascolto del precedente, ovvero la soft psichedelia e la West Coast californiana di fine anni ’60, con incursioni sporadiche di atmosfere funky e Canterbury. Maggiori sono però le sonorità sinfoniche così come, devo dire, sono minori le escursioni stilistiche tra un brano e l’altro, presentandosi l’album maggiormente unitario ed uniforme (ma non certo monotono!). La miscela strumentale è inoltre più equilibrata, profittando di ottimi duetti ed intrecci da parte di tutti gli strumenti, con un maggior ruolo della belle timbriche vocali di Alex Espe (che col suo piano elettrico continua anche a caratterizzare il suono della band) e Aaron Laughlin.
In realtà l’album appare in lento ma costante crescendo, almeno fino alla penultima traccia; si parte piuttosto lentamente con “The Call”, caratterizzato da una delicata trama intessuta da mandolino e chitarra acustica e dalle visionarie e sognanti liriche che ci conducono realmente nel mondo dei sogni. La susseguente “Out of the Fog”, la traccia più lunga dell’album (12 minuti e mezzo), non appare certo altrettanto avventurosa come la sua omologa inclusa in “Rise of the Waterfowl”; essa tuttavia ci conduce amabilmente per mano lungo sentieri dolci ma non certo lineari, con intrecci strumentali interessanti i cui sviluppi riescono comunque spesso a sorprenderci.
Le successive “Betwixt and Between” e “Ancient Yet Eternal” rappresentano invece per chi scrive i migliori episodi dell’album, pur, come dicevo, in un contesto piuttosto omogeneo. Le ritmiche si fanno a momenti più vivaci e il pathos decisamente più tangibile. La prima ha un feeling genesisiano che la pervade nella prima parte per poi proseguire in crescendo, con un Mellotron di sottofondo che ne incrementa l’intensità. La seconda delle due inizia in modo mellifluo, con un piano morbido e una ritmica garbata, prima che lentamente il brano prenda quota, con il cantato che procede in modo morbido e le tastiere che conquistano la scena.
La conclusione delle danze è affidata a “Verve”, brano che non fa di certo il gran botto finale ma che comunque ha una parte centrale caratterizzato da qualche ritmica più dinamica ed intricata. Si chiude in modo comunque abbastanza tranquillo questo bell’album che, benché ben realizzato e a conti fatti decisamente affascinante, anche per le sue liriche non banali, mi ha tuttavia colpito meno del precedente.



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Alberto Nucci

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