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STERBUS Real estate / Fake inverno Zillion Watt Records 2018 ITA

Nel suo settore di competenza, quest’ultima uscita del progetto di Emanuele Sterbini si dimostra un’opera ambiziosa, che come tale si prende volontariamente qualche rischio. Settanta minuti di musica, però divisi in due CD, come già suggerisce il titolo: “Real estate” (sulla carta più giocoso) e “Fake inverno (apparentemente più introspettivo), in cui vi è una contrapposizione non solo nelle stagioni ma anche nell’accostamento di titoli in italiano e inglese. Dopo essere stato bassista in diverse compagini, Sterbini ha pubblicato nel 2007 a nome Sterbus l’EP “Eva Anger” (chiaramente ispirato alla pornostar Eva Henger; decisamente provocatorio, anche perché - a quanto pare - il nostro ha suonato anche in realtà di beat “cattolico”). Da lì cominciò la propria discografia, fino a far diventare gli stessi Sterbus un duo grazie all’incontro con la cantante e fiatista Dominique D’Avanzo. Col passare del tempo Sterbini (qui impegnato alla voce e alle chitarre) si è sempre più appassionato ai Cardiacs, fino a coverizzare “Dirty Boy” ed avere il piacere nel 2010 di vedere questo brano inserito nella raccolta “Leader of the Starry Skies - A Loyal Companion”, dedicata proprio al leader Tim Smith. L’influenza della band inglese si è dimostrata determinante e traspare chiaramente nelle composizioni; in questo lavoro preso in esame diviene ancora più decisiva, perché il batterista Bob Leith – proprio dei Cardiacs – è presente su tutti i brani, dimostrando ancora una volta tecnica e versatilità non comuni.
A parte questa forte presenza, i due musicisti romani sono circondati da tanti altri ospiti che contribuiscono ad arricchire le ventisei composizioni. “Fall Awesome” comincia con un giro acustico e voci dissonanti, poi accompagnate da controtempi e uso dei fiati dallo stile canterburyano, prima di virare sul versante elettrico alternative che potrebbe sembrare più banale ma che gode dell’irruzione di Carlo Schneider, con l’alto sax nello stile dei danesi Taylor’s Universe. “Maybe Baby” sembra una versione un po’ più evoluta dei nostrani Prozac+, che vede la presenza alla chitarra elettrica e al sitar del polistrumentista e giornalista britannico Charlie Cawood. “In This Grace”, cantata con grande sensibilità da Dominique, è una carezzevole ballata dal chiaro refrain folk-pop, in cui dominano le corde acustiche di Sterbini ed il piano di Riccardo Piergiovanni, con la piacevole sorpresa di sentire nel finale dei chiari rimandi alle ballate ad opera di Ron Thal (soprattutto quello del secondo album “Hermit”), prima di riprendere il giro iniziale ma con gli strumenti elettrici. “Prosopopeye” piacerà ai fan degli XTC più scanzonati e ovviamente dei Cardiacs; agli altri molto meno, anche perché dura decisamente troppo e rompe volutamente le scatole, anche se si riscontrano delle interessanti soluzioni ai fiati. “Home Planet Gone” è un’altra ballata malinconica cantata da Dominique e per il suo incedere non sembrerebbe affatto permeata dal sole estivo bensì da quello tardo autunnale, tanto da star bene come colonna sonora per qualche puntata della serie televisiva “Dark”. “Razor Legs” parte come il solito pezzo garage, magari ai limiti col surf, ma ad un certo punto l’atmosfera cambia di colpo ed il piano elettrico di Piergiovanni fa piombare in un territorio psichedelico che per i contrasti potrebbe ricordare i The Nerve Institute, a cui seguono poi inserimenti di clarinetto e sax. “Emy’s Fears” è la prova che su questo primo dischetto si alternano scientificamente pezzi più sognanti ad altri decisamente “abrasivi”; questa è infatti un’altra ballata, stavolta davvero ben cantata da Sterbini, dai chiarissimi riferimenti a quel periodo degli anni ’60 in cui oltre ai Beatles spopolavano anche i Kinks e l’Europa scopriva che da qualche parte esistevano i campi di fragole. Dal canto suo, “Shine a Light” chiude la prima parte e si presenta come un ennesimo misto tra alternative, garage e new wave ancora in stile XTC, cominciando decisamente a stancare; ma siccome le sorprese sono sempre dietro l’angolo, i titoli di coda sono affidati alla chitarra di Jurgen Verfaillie, che si produce in un assolo davvero cinematografico.
Il secondo dischetto presenta probabilmente i brani più particolari, che consentono di alzare ulteriormente il livello qualitativo. Dopo l’introduzione solenne della breve “Adverse Advice MCCCXLVII” in cui risuonano in lontananza le campane della cattedrale di Liverpool, parte “Little Miss Queen of Light” (Willow)”, che con la sua new-wave “epica” deve sicuramente qualcosa ai Monochrome Set. David Sheridon e Debz Joy degli Army Of Moths sono i protagonisti a sorpresa di “(Maybe I’m a) Lioness”, composizione con un andamento a tratti blues, altri simil-Pink Floyd di “Money” per l’uso del sax ad opera del solito Schneider, diventando ancora più imprevedibile alla fine grazie al clarinetto e al flauto della D’Avanzo. “Mate in 4/4” è ritmata e melodica allo stesso tempo, ricreando una sensazione di già sentito che però non si riesce ad identificare (anche se ci sarebbe da pensare ai Pavement, con una voce per fortuna più musicale, e ovviamente ai Wilco), amalgamata com’è in un misto di anni ’60 e fini anni ’80, saltando quindi a piè pari più di un decennio. La title-track è tra le tracce più riuscite, ben cantata e man mano sempre più supportata dagli intrecci musicali del pianoforte e dei fiati, col drumming di Leith sempre puntuale e uno Schneider a cui purtroppo non viene mai lasciato lo spazio che meriterebbe. E a dimostrazione che si sta ascoltando la parte migliore dell’album, “Stoner Kebab” recupera quegli anni ’70 tanto bistrattati sotto forma sia di assoli d’organo del solito Piergiovanni che di armonica ad opera di Johnny Dal Basso, sfociando poi nella new-wave dichiarata fin dal titolo su “Micro New-Wave”. Vengono in mente le serate in cui si ballava a ritmo degli A-Ha o dei Simple Minds, anche se poi ci si evolve rapidamente in qualcosa di più complesso e i Wilco tornano a riecheggiare, assieme a delle basi simili a quelle di certi pezzi degli U2. A proposito di Wilco, la drammatica musicalità di “Trapeze” ne rappresenta un bel guanto di sfida, che ai punti vede vincitori proprio la formazione italica grazie ad un ottimo intreccio di voci maschili e femminili ben studiato (echi anche dei Soundgarden più melodici), mentre “Blackducks on Parade” chiude in maniera tanto solenne quanto ironica una prova che come detto all’inizio si mostrava senza alcun dubbio ardua.
Tentando di capire cosa sia davvero il Progressive e cercando di non urtare quelli che non vogliono assolutamente sentir dire che si tratti di un’attitudine ma che allo stesso tempo si irritano se sentono suonare sempre le stesse cose (sì, quella discografica è una dimensione decisamente acida, nel senso più brutto del termine), si può dire che queste composizioni risultano senza dubbio inusuali e molto più complesse di quanto si possa credere. Nonostante si tratti di qualcosa di decisamente atipico per l’ambiente prog – o forse proprio per questo! –, si consiglia di concedere più ascolti a questo impegnativo doppio lavoro. Per quanto riguarda invece l’ambito strettamente pop, la scommessa è decisamente vinta e va oltre gli standard medi del momento.



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Michele Merenda

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