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JALAYAN Sonic drive Phoenix Wizard 2019 ITA

Gli esperti brianzoli Jalayan esordiscono con un progetto che si propone di gettare uno sguardo sulle civiltà e le culture antiche, come se un’astronave giungesse dallo spazio e ne appurasse di volta in volta i costumi. Un modo per introiettare le scoperte universali e poi viverle direttamente dall’interno di se stessi. Il primo album è dedicato ai Babilonesi, con i loro inevitabili richiami stilistici mediorientali. Il dischetto è sagomato con un disegno geometrico in cui si evince la tecnologia aliena, simile invero a certe pitture delle popolazioni precolombiane (quindi ben più decentrate geograficamente…); l’interno dell’astronave ricreato da tale H3mlock (autore di artwok e grafica) ricorda i disegni approssimativi e allo stesso tempo calorosi dei primi Ozric Tentacles, rendendo definitivamente chiaro il quadro di riferimento. Sì, perché il modello space-rock psichedelico a cui guardare è costituito unicamente dalla band di Ed Wynne ed il chitarrista Vincenzo Calvano sembra esserne l’erede più accreditato, soprattutto se si guarda alla produzione iniziale del gruppo inglese, con delle puntate anche ai successivi “Curious corn” (1997), “The hidden step” (2000) e “Swirly termination” (2000, ma i brani risalivano al 1992). Altri emulatori blasonati come i finlandesi Hidria Spacefolk o i belgi Quantum Fantay, nonostante l’impeccabile formalismo (o forse proprio per questo…), non raggiungono la medesima empatia con l’ascoltatore, anche perché il basso di Matteo Chiappa e la batteria di Dario Marchetti suonano molto vivaci, proprio come le già citate prime uscite degli Ozric. A tutto questo occorre poi aggiungere i sintetizzatori di Alessio Malatesta, che con i suoi assoli sopperisce anche a quella che poi è stata l’importante presenza del flauto di John Egan “Champignon” nella proposta dell’ensemble britannico dal 1984 al 2005.
Entrando quindi nei cancelli celesti, “Ishtar Gate” acquisisce il tono della regalità che le compete, tirando in ballo anche i greci Soundtrap, che – per l’appunto – nei loro pezzi hanno spesso ammantato Wynne e soci con una coltre di regale maestà. L’inizio, magari, può ricordare la seminale “Master Builder” degli storici Gong. C’è poco da aggiungere, a parte esaminare la ricostruzione culturale che i nostri fanno di quello che era all’epoca lo sfarzoso mondo mesopotamico, celebrando gli dei principeschi con “Descent of Annunaki”, le cui divinità – per come vengono descritte dai miti – sembrano davvero degli extraterrestri discesi a portare la propria conoscenza e poi adorati come dei. E poi “The Tree of Life”, dove l’Albero della Vita viene prima guardato con incanto, per tramutare successivamente il viaggio in qualcosa di più impegnativo. Sintetizzatori e sequencer riportano alla mente i circuiti di mirabilie tecnologiche su “Vimanas”, oggetti volanti mitologici capaci anche di immergersi, impiegati secondo le leggende come strumenti bellici in vere e proprie guerre indiane, in tutto e per tutto simili a quelli che oggi sarebbero definiti degli U.F.O. Il termine, dopo, venne genericamente adottato come “tempio indù” o “luogo di Dio”. “Sacred Mountains” parte molto visionaria e poi, una volta risaliti per queste montagne sacre, la chitarra viene pervasa quasi da uno spirito Satrianeggiante, somigliando insieme alla successiva “Dub Nam” (un tipo di scrittura, pare) agli Spiralmaze, costituiti da ex componenti dei già citati Soundtrap. “Nephilim Steps” continua la visione di un popolo ancora strettamente legato alle vicende delle più alte sfere cosmiche: i nephilim erano i figli degli angeli e delle donne umane; qui, probabilmente, si continua ad alludere a visitatori di altri pianeti. Il pezzo ricorda molto le partiture più ariose e orecchiabili del succitato “Swirly termination” e nel suo “singhiozzare” – come se si salisse una scala – risulta molto divertente. “The Library of Ninive”, che chiude questo esordio, comincia con una chitarra acustica dallo stile simile a quello adottato da Wynne su “Become the other” (1995) e poi si dilata per quasi nove minuti. Molto convincente l’ingresso della chitarra elettrica, a cui poi rispondono con toni acuti i sintetizzatori.
Null’altro da dire: se si è fanatici degli Ozric Tentacles, questo è sicuramente il gruppo che ne riporta in vita l’essenza più genuina, quella in cui ci si divertiva. Per adesso va bene così, vedremo dalla prossima uscita quali saranno le coordinate da seguire e se si riuscirà a non fare annoiare soprattutto i detrattori.



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Michele Merenda

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