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SARIS Beyond the rainbow Progressive Promotion Records 2020 GER

Guarda un po’ che storia… Il chitarrista e tastierista Derk Akkerman fonda i Saris agli inizi degli anni ’80, che si segnalano come un live band dall’attività abbastanza intensa. Tutto questo, però, porterà a pubblicare soltanto un singolo nel 1983 e ad esordire con un full-length vero e proprio addirittura nel 1993. Passano dieci anni e con una formazione rinnovata i Saris tornano in pista, pubblicando altri tre album tra il 2009 ed il 2017. Ad affiancare Akkerman ci sono il bassista Lutz Günther ed il batterista Jens Beckmann, oltre al cantante Henrik Wager e ad Anja Günther, anche lei vocalist, la quale si destreggia tra doppie voci e cori vari, dando maggiore effetto a parti già di per sé enfatiche. Come se non bastasse, per questo quinto album è presente anche un ulteriore coro… E così, se l’intento era quello di creare una musica volutamente tronfia ma allo stesso tempo catchy, questo può considerarsi pienamente raggiunto. Quanto proposto è più che altro heavy-rock molto orecchiabile, con decise puntate verso il territorio dell’AOR, riprendendo però lezioni di heavy metal sinfonico – presenti per tutta la durata dei dieci pezzi qui contenuti –, creando soluzioni piacevoli che però non fanno gridare al miracolo. I riferimenti possono essere i Simphony X più melodici ma allo stesso tempo magniloquenti, oltre all’appariscenza tipicamente femminile dei Within Temptation.
Tra i pezzi da citare, “Avalon” è un prog-metal posto in apertura che vuole suonare solenne e altisonante, somigliando magari a quello degli olandesi Ayreon. Soprattutto l’uso delle tastiere è tipico delle compagini nordiche di questo tipo, con tutti i pro e contro che il genere offre. “Time Machine” segue le medesime coordinate, ma il ritornello fa molta più presa, dando maggiori responsabilità a Wager nelle strofe e poi lasciandosi andare a delle fughe strumentali efficaci che comunque sarebbe stato bene far culminare con degli assoli liberatori. Saltando un po’ tra i brani, i quasi dodici minuti della title-track si aprono con sinfonismi vari a cui seguono strofe assolutamente accattivanti, magari rese un po’ stucchevoli dal voler per forza suonare “regali”, ma per gli appassionati del genere andrà sicuramente bene così. Segue una parte più “drammatica” ed intricata, soprattutto ritmicamente, preludio ad un’ampia sezione in cui a parlare è la musica assistita da alcuni vocalizzi, tornando poi al tema principale in cui viene sfruttata maggiormente la voce femminile. “Orphan” raggiunge notevoli livelli di “altisonanza” sinfonica, praticamente da colonna sonora, ben spezzata in due occasioni dalla chitarra elettrica, che in entrambi i casi sarebbe dovuta andare più avanti e non fermarsi così presto.
“New World” sembra concedere maggior spazio ad Anja Günther, ma la traccia occorre segnalarla comunque perché Akkerman pare ad un certo punto darci maggiormente dentro con le sei corde, anche se continua a non risparmiarsi con le tastiere e le solite trovate sinfoniche. “Heaven’s Gate” è ben costruita nell’arco dei suoi sette minuti, tra le solite soluzioni melodiche e lunghi intermezzi strumentali che contribuiscono a far salire la tensione. “Away From You” è un altro bell’episodio, basato sul lavoro impegnativo di batteria ed interessanti doppie voci nel finale. La conclusiva “Infinity” non aggiunge altro, se non un cantato che tenta di essere più aggressivo.
Come si sarà visto in testa alla recensione, si tratta di un lavoro della PPR e questo risulta come sempre garanzia di qualità formale. Bella confezione, storie articolate e pulizia del suono. Anche troppo in questo caso (come in altri, diciamolo), visto che ci sarebbe voluta più “cattiveria” per non rendere troppo dolce la bevanda. Esiste una bella fetta di pubblico che amerà questa proposta, difficile però trovarla nel circuito prog, i cui ascoltatori storcono il naso anche per molto meno. Piacevoli, ma vecchie compagini come i Brazen Abbot di Nikolo Kocev (ecco un accostamento col mastermind Derk Akkerman) hanno ancora oggi qualcosa da insegnare.



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Michele Merenda

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