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SHAMAN ELEPHANT Wide awake but still asleep Karisma Records 2020 NOR

Sono passati quattro anni da “Crystals” (full-length in verità preceduto nel 2015 da “More”, un EP in formato digitale), esordio che suonava decisamente più eterogeneo ma allo stesso tempo più pimpante e vivace di questo nuovo lavoro. In quel contesto la title-track appariva come il brano migliore, ma il resto sicuramente aveva il merito di divertire, spaziando tra i vari stili intrapresi di volta in volta dai connazionali Arabs in Aspic o dagli svedesi Siena Root, senza dimenticare l’approccio dei Seven Impala con cui viene condiviso difatti il produttore Iver Sandøy, soprattutto per quanto riguarda le tastiere (in particolar modo l’organo, ma in quest’ultimo elemento ci sono vicinanze anche con gli Elephant9). Eirik Sejersted Vognstølen (voce, chitarra), Jard Hole (batteria), Ole-Andreas Sæbø Jensen (basso) e Jonas Særsten (tastiere) in queste ultime annate devono evidentemente essere rimasti avvolti da delle nebbie nordiche talmente spesse da avvertirle a tratti impenetrabili, per poi uscire nuovamente a respirare… La componente psichedelica non viene certo abbandonata, accentuando quella vena stoner che a tratti si coglieva anche nel loro debutto, in particolar modo in quella che era la conclusiva “Stoned Conceptions” (guarda caso…).
Si riparte quindi da dove si era terminato, portando avanti una proposta che come accennato in apertura vuole essere più coesa stilisticamente. Gli otto minuti di questa nuova title-track posta anche stavolta in apertura ripercorre i densi scenari visionari degli olandesi 35007 – che letti al contrario e sottosopra sarebbero i LOOSE – e in particolare il loro “Liquid” pubblicato nel 2002. Per buona parte dominato dalle tastiere incandescenti ed inesorabili, il pezzo esaminato presenta un breve intermezzo vocale prima di continuare in questo viaggio nelle nebbie psicotrope. Il richiamo a realtà che a loro volta si rifacevano ad altre compagini seventies è ancora più forte nella successiva “H.M.S. Death, Rattle and Roll”, che dopo un inizio energico si concede alla sospensione cosmica, prima di ricominciare il proprio “delirio” in principio con le sei corde e poi di nuovo con le tastiere. “Steely Dan” riprende la vivacità dell’esordio, con cori da psichedelia fine anni ’60, che però non c’entrano nulla con il gruppo omonimo al titolo. L’atmosfera sembra essersi rilassata ed “Ease of Mind” viene cantata spensierata – senza picchi emozionali particolari – sopra delle chitarre acustiche predominanti, seguite da riverberi ed effetti vari. “Magnets” riprende in buona parte gli spunti iniziali, per poi far posto agli undici minuti di “Traveller”, divisa in tre movimenti. Nella prima parte denominata “Vanishing Point Of View” si registra un buon lavoro della sezione ritmica, per tornare nella dura e torbida visionarietà strumentale durante la seconda sezione intitolata “Inner Space”. Il terzo segmento, “No One Knows”, suona decisamente ossessivo e volutamente ripetitivo fino all’eccesso. Chiude “Strange Illusions”, in apparenza più pacata. Nella realtà, dopo poco più di un minuto, la tensione torna a farsi sentire grazie al lavoro di basso e a parti cantate che diventano sempre più acute. Convincente l’incalzare continuo, con la chitarra che nella seconda parte finalmente si sente libera e ben definita.
Un ritorno che necessita di ascolti sicuramente attenti, senza alcuna fretta; si rischierebbe di cogliere questo come-back come qualcosa di non definito. Nella realtà non è così, anche se c’è la chiara intenzione di voler apparire fin troppo magmatici, incandescenti ed allo stesso tempo poco definiti. Di sicuro qui non dominano gli spunti solisti, tutt’altro; occorre quindi entrare nell’ottica dei riff trasfigurati dagli effetti, pensare a ritmiche capaci di connotare le atmosfere e ad accordi che sono preponderanti sugli spunti individuali, lasciando spazio in quest’ultimo caso alle tastiere. Non male, davvero, ma sarebbe lecito cominciare ad attendersi dai quattro musicisti di Bergen qualcosa contenente un quid qualitativo che rendesse la loro musica più incisiva, non soltanto da un punto di vista formale. Le referenze parlano di una proposta per fan di Motorpsycho, Mahavisnu Orchestra, Steely Dan e Jimi Hendrix… Ci si sente di condividere solo il primo nominativo in elenco, soprattutto per quanto riguarda alcune vecchie atmosfere. Parlando invece del mancino di Seattle, qualcosa poteva essere presente sull’esordio citato a inizio recensione, non certo qui.



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Michele Merenda

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