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SOLILOQUY Soliloquy Record Collector Magazine 2018 AUS

Strana storia, che merita di essere raccontata, quella dei Soliloquy, band australiana che si è trovata con le persone giuste, nel posto giusto, ma nel momento sbagliato. Nei primi anni ’70, con il nome Crimson, il gruppo si ritrovò a suonare per le truppe americane impegnate in guerra e girava molto il continente asiatico, con concerti in Vietnam, Singapore, Indonesia e Malaysia. In quest’ultimo Paese trovò una stabilità sia lavorativa che economica, riuscendo ad acquistare un moog e un mellotron e iniziando a proporre un repertorio personale.
La mente principale della formazione era Kelvin Monaghan (chitarre, sassofono e flauto), che vedeva al suo fianco l’affascinante cantante Carmel Chayne, Greg Cull (tastiere), Kenny Leroy (basso) e Wayne Bonner (batteria). Durante un concerto a Kuala Lampur il fato volle che Maurice Gibb (sì, proprio quello dei Bee Gees) si trovasse in città per un tour e si ritrovò ad assistere all’esibizione dei Crimson, rimanendone estremamente colpito. Al punto che propose subito ai ragazzi australiani di tornare a Londra con lui per incidere un disco.
Nel giro di tre settimane era tutto organizzato e i musicisti volarono nel magico mondo musicale della capitale inglese, alloggiando vicino ad Abbey Road e cominciando a registrare presso i Morgan Studios, dove erano nati alcuni album importanti di colossi del progressive rock come Emerson, Lake & Palmer, Yes e Rick Wakeman. Iniziarono anche a suonare dal vivo al Marquee, al pub Windsor Castle e allo Speakeasy, dove erano spesso in cartello i King Crimson, cosa che spinse al cambio di nome in Soliloquy. Un EP con tre canzoni era ormai pronto e in seguito fu pubblicato in poche copie, diventando subito raro, ma Gibb per problemi personali ad un tratto dovette allontanarsi. C’era l’interesse della EMI e anche della Polydor su spinta di Hedley Leyton, che cercava nuovi talenti da mettere sotto contratto. Sembrava tutto perfetto, ma una crisi petrolifera frenò ogni cosa perché le case discografiche, dovendo affrontare dei tagli alle materie plastiche da utilizzare, decisero di non investire più su artisti emergenti.
I Soliloquy continuarono a suonare ed anche a registrare nuovi brani presso lo studio di Manfred Mann o su un Revox di Monaghan durante gli spettacoli dal vivo. Il tour dei Bee Gees in Australia fu l’occasione di tornare in patria come gruppo di supporto, ma con la scadenza dei loro permessi di soggiorno non fu possibile rientrare in Gran Bretagna. Riuscirono a continuare a suonare con una certa frequenza, anche di nuovo in giro per l’Asia, ma l’auspicato album d’esordio non vide mai la luce. Per tanti anni il nome dei Soliloquy è rimasto nascosto, ma qui rientra in gioco Hedley Leyton, che acquistando l’intera collezione di dischi di un venditore si ritrovò tra le mani il raro EP inciso nel 1974. Rintracciato Monaghan è stato possibile mettere ordine a tutto ciò che la band aveva registrato e recuperare materiale addirittura per un doppio LP che testimonia la bontà della proposta degli australiani. Ci ha pensato la rivista britannica Record Collector a pubblicare questo lavoro, edito però esclusivamente in vinile e in edizione limitata di soli 500 esemplari, con tanto di certificato di autenticità, numero della copia scritto a mano e firma dell’editore. Per cui, se la recensione dovesse incuriosirvi a tal punto di essere interessati all’acquisto, fate in fretta!
Ma com’è la musica dei Soliloquy? È presto detto: si tratta di un felice abbinamento di rock energico, raffinatezza, romanticismo, pop di classe e voglia di sperimentare nuove soluzioni, che si denota magari in certi spazi di moog e mellotron che possono sembrare anche un po’ ingenui, ma che ben si amalgamano con il sound proposto e rendono ulteriormente caratteristici i brani del gruppo. La chitarra è la protagonista principale, con timbri aspri e riff graffianti e crea bei contrasti con le tastiere e i fiati, che di tanto in tanto danno anche una spinta classicheggiante. Come ciliegina sulla torta le performance vocali della Chayne si fanno sempre apprezzare e sembrano nell’orbita di Sonja Kristina. In effetti, a tratti, sono proprio i Curved Air che sembrano emergere a livello di similitudini, pur mancando il loro tratto distintivo rappresentato dal violino. Le composizioni sono per lo più concise, ma strutturate in maniera tale da far venire fuori i classici cambi di atmosfera e di tempo, eppure non manca una piece de resistence che occupa l’intera quarta facciata. Ci va di spendere qualche parola in più per questa suite, “Helen of Troy”, che si apre con la solita chitarra ruvida, per poi lasciare spazio all’ottima interpretazione della Chayne, aggressiva al punto giusto. Segue una sezione strumentale dall’atmosfera un po’ dark e quest’alone di oscurità si mantiene fino alla fine del disco, con echi sabbathiani, tastiere sinistre, rallentamenti e accelerazioni che permettono dinamiche particolari fino al finale che richiama un po’ i Genesis. Tutti i brani mantengono però una qualità più che soddisfacente con alcuni picchi quali “Alive to die/Father moonshine” e “Lady Tarantula”, che dal vivo erano anche occasione di mostrare una certa teatralità con costumi e scenografie, o anche “Paper musician”, “House of foolishness” e “Soliloquy”.
Una bella storia, una bella scoperta, una bella sorpresa, soprattutto un bel disco che ci ricorda ancora di più quanto siano stati creativi gli anni ‘70.



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Peppe Di Spirito

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