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THEO Figureheads Generation Prog Records 2020 USA

A dir proprio la verità, l’album d’esordio del progetto Theo (“The game of Ouroboros”, pubblicato nel 2015) non mi aveva proprio impressionato… anzi, lo avevo trovato decisamente scialbo e insignificante. Forse dovrei provare a riascoltarlo, a questo punto, dato che questa seconda uscita mi sembra decisamente meglio… al di là di ogni ragionevole speranza da parte mia.
Riassumendo brevemente le caratteristiche di questo progetto, si tratta fondamentalmente del divertissement prog da parte di Jim Alfredson, organista jazz di successo, da anni impegnato, tra le altre cose, col trio Organissimo nel cui ambito ha pubblicato sei album di jazz organistico. In questo secondo album, anch’esso frutto di una lunga gestazione, il quartetto di musicisti dell’esordio viene confermato in toto: alla voce e tastiere c’è ovviamente Alfredson, poi al Chapman stick e al basso fretless Gary Davenport, Kevin DePree alla batteria e Jake Reichbart alla chitarra ma stavolta solo in due tracce, dato che nelle altre due alla chitarra c’è l’apporto di Tom MacLean, ex bassista degli Haken.
Questa volta l’album dei Theo è composto da sole 4 tracce tra i 10 e i 17 minuti e l’iniziale “Pathology” subito ci fa rendere conto che il principale difetto dell’esordio, ovvero la mancanza di grinta e la piatta riproposizione di stereotipi Prog senza grossi guizzi di fantasia, sembra superato. Sonorità decisamente energiche vengono adeguatamente supportate dalla chitarra di MacLean in un brano che decolla praticamente fin da subito, e che ci narra, così come gli altri, di una figura politica… molto probabilmente reale ed attuale, lanciando indicazioni per poterlo riconoscere attraverso dei titoli alternativi delle tracce: “Pathology” diviene così “The Sociopath”, “Man of Action” invece “The Demagogue”, eccetera. D’altronde, traducendo il titolo dell’album, oltre che “polena”, si ottiene anche “leader nominali o capi senza potere reale”. Uomini di paglia, insomma.
Il sound è molto moderno, benché rimandi alle solite influenze classiche del Prog, imperniato sul suono delle tastiere ma non succube di esso. Le strutture non sono particolarmente complesse, anche se le durate prolungate comportano un costante alternarsi di assoli e momenti di transizione che vanno ad arricchire gli sviluppi dei brani. La seconda traccia, “Man of Action”, inizia con un coro “USA! USA!”…. e questo ci fa un po’ sospettare chi sia il personaggio politico che viene raffigurato dalle sue taglienti liriche. Musicalmente il brano ha un aspetto funky anche se un po’ ricorda qualcosa degli ultimi Pink Floyd (quelli senza Waters). Nella parte centrale il brano assume sonorità ed atmosfere quasi new Prog, con una chitarra che si lancia in un assolo dietro l’altro; i toni si alzano ma poi, quasi all’improvviso, il pezzo si tramuta in uno strumentale calmo e sognante, con piano e chitarra (questa volta iper-melodica) e che si prodigano per strapparci un pezzetto di cuore…
“The Garden” prolunga queste belle atmosfere calme e tranquille, questa volta con un cantato dolce e melodico. Un brano a metà tra i Genesis più melodici e i Beatles, anche se il cantato stesso ci ricorda a tratti Richard Sinclair. Delizioso, senza dubbio. Ma l’ultimo asso che la band cala è posto in chiusura, col brano più lungo dei quattro (poco meno di 17 minuti) e in cui fa ritorno la chitarra di MacLean. L’avvio di “Portents & Providence” sembra tratto direttamente da “Wind & Wuthering” (con echi anche di “Domino”) e la cosa ci spiazza un po’… ma dopo circa 3 minuti il brano cambia decisamente connotati (proprio quando stavamo pensando a una citazione anche per “Watcher of the Skies”) in favore di un rock più ritmato e quasi affabile, con un charleston costantemente accarezzato, tastiere gioiose e un cantato dagli umori positivi. Nell’ultima parte però pare che la positività si attorcigli su sé stessa e il brano sembra quasi impazzire, con le urla delle tastiere che si avventano sulla chitarra, prima che sul finale rispuntino poi i Genesis.
Non so… a me quest’album è piaciuto parecchio, ripeto, e non riesco a capacitarmi di come invece il lavoro precedente risultasse così piatto e quasi insignificante. Lo dico…? Uno dei miei dischi preferiti del 2020.



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Alberto Nucci

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