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THE AMORPHOUS ANDROGYNOUS (& PETER HAMMILL) We persuade ourselves we are immortal FSOLdigital 2020 UK

La sigla The Amorphous Androgynous è utilizzata da Garry Cobain e Brian Dougans, veterani inglesi della musica elettronica con i Future Sound of London, per il loro progetto parallelo dedito allo space-rock, che esordì nell’ormai lontano 1993 con l’album “Tales Of Ephidrina”, apprezzato oggi come allora da una fetta trasversale (in quanto a gusti e fascia d’età) di ascoltatori.
Caratteristica intrigante di questo mini-album è il fatto di essere accreditato in maniera paritetica al duo e al leggendario Peter Hammill, anche se il contributo del leader dei Van der Graaf è forse meno decisivo di quanto ciò farebbe intuire (a differenza di quanto recentemente avvenuto con l’album collaborativo concepito con gli Isildurs Bane), ma senza dubbio si deve principalmente a questo l’interesse suscitato nel mondo del progressive. Eppure altri nomi come Brian Hopper (fratello di Hugh e figura seminale della scena di Canterbury ai tempi dei Wilde Flowers) e Ray Fenwick non dovrebbero essere dei carneadi per chi conosce la storia del rock; pur proveniente da altri lidi sonori e altri decenni, altrettanto rilevante è la presenza del profeta del mod revival Paul Weller, che partecipa come chitarrista, pianista e coautore.
Per quanto la sua durata superi i 40 minuti, gli autori dimostrano una certa onestà nel classificare il disco come un EP, essendo la scaletta stata compilata a partire dal brano eponimo, quello che vede il contributo diretto di Hammill in fase di scrittura ed esecuzione, aggiungendo cinque ulteriori tracce che possono essere considerate a buon diritto delle variazioni sul tema. Detto ciò, tutti i brani presentano validi motivi di interesse e mai assurgono al ruolo di riempitivi, grazie anche a uno stuolo di strumentisti aggiuntivi (un’intera pagina del booklet…) che rielaborano i temi ciascuno con la propria diversa sensibilità, mentre i titolari del marchio si limitano principalmente a tastiere, campionatori ed effetti.
Chitarra slide psichedelica, sax, tromba, coro (Chesterfield Philharmonic Choir, di oltre 60 elementi), piano, arpeggi di synth, cascate di archi (autentici anch’essi) e l’ineguagliabile voce declamatoria di Peter Hammill che sentenzia sul tema della mortalità umana; un arrangiamento ricchissimo che fonde musica classica, psichedelica e sintetica, senza soffocare le parti vocali, ma disegnando un adeguato contorno per renderle ancora più incisive. La chitarra solista di Ray Fenwick aggiunge un tocco floydiano, mentre la combinazione tra la voce di Peter e il sax di Brian Hopper finisce per evocare l’interazione con David Jackson nel sound del glorioso “generatore” nella sua incarnazione classica. Un modo esemplare di espandere una semplice idea melodica in un brano di dodici minuti, lavorando per addizione e stratificazione, una tecnica paragonabile a quella utilizzata da Mike Oldfield per il finale della prima facciata di Tubular Bells. Così, mentre “Psych recap” e “Physically I’m here…” forniscono una rilettura incalzante, con batteria e percussioni in evidenza, nello stile degli Shpongle di Simon Posford, “The immortality break” e soprattutto “Synthony on a theme of mortality” ne diradano le trame, grazie ai languidi apporti di MiniMoog da parte di Dave Spiers, con un Fenwick (determinante il suo apporto) ancora sugli scudi.
Da segnalare infine l’artwork di copertina di Gavin Penn, in cui il ritratto del volto di Peter Hammill diviene parte integrante di un’allucinata e inquietante scena di fantasia marina, probabilmente un omaggio da parte di Cobain e Dougans alle liriche della vandergraaffiana “A plague of lighthouse keepers”. Per ciò che mi riguarda, un abbinamento apparentemente azzardato che si rivela un esperimento riuscito, che difficilmente però avrà un seguito.



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Mauro Ranchicchio

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