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3.2 Third impression Frontiers Records 2021 USA

Era l’anno 1988 quando il polistrumentista statunitense Robert Berry partecipò da componente attivo a “To the power of three”, unico album dei 3, anche conosciuti come Emerson, Berry & Palmer. Un progetto estemporaneo (almeno col senno del poi) con cui si metteva in evidenza uno stile AOR/pop che lasciava ben pochi spazi a quel prog-rock reso celebre dal ben più rodato trio degli Emerson, Lake & Palmer. Proveniente dagli Hush, Robert Berry avrebbe poi portato avanti una carriera composta da lavori solisti e collaborazioni, prima di tornare a lavorare addirittura dopo quasi trent’anni al seguito di quel lavoro, su suggerimento di Serafino Perugino della Frontiers Records. Nel 2015 Berry lavora alla stesura di nuovi pezzi con Keith Emerson, ma l’anno seguente accade l’imponderabile: il maestro dei tasti d’avorio si suicida. Nonostante questo, nel 2018 esce “The rules have changed” sotto la sigla 3.2, con cui Robert porta a termine il lavoro cominciato col proprio amico. E nel 2021, avendo a disposizione la lunga “Never” – ultimo brano composto assieme ad Emerson – si conclude l’ideale trilogia iniziata alcuni decenni prima, con quello che tanto per chiarire le idee risulta molto probabilmente il lavoro migliore.
Robert Berry compone e adempie a tutte le partiture qui presenti, sia vocali che strumentali, mettendo ancora una volta in mostra la sua incredibile perizia tecnica e compositiva, oltre a una buona timbrica di voce. Fa eccezione la già citata “Never”, che non è del tutto chiaro se le parti tastieristiche siano effettivamente suonate dal tragicamente scomparso musicista inglese oppure si tratti della rielaborazione di qualcosa composto in precedenza. Resta il fatto che l’intero album è formato da brani orecchiabili e spesso epici che a differenza del passato non scadono quasi mai nel pacchiano, inserendo spesso interventi di tastiera ispirate al purtroppo scomparso Keith, sia nello stile che nei suoni adoperati. Spesso vi sono richiami alla tradizione folk irlandese, come avviene fin dall’apertura di “Top of the World”, tra chitarre acustiche che si intrecciano tanto limpide quanto stentoree e le parti vocali che si dividono stilisticamente tra Irlanda ed USA. Quasi nove minuti in cui accadono molte cose, anche aperture repentine che rimandano agli Yes, nonché intrecci strumentali ben studiati. L’atmosfera diventa grave ed impegnata, forse anche un po’ troppo trascinata, prima dell’improvviso intervento tastieristico nel succitato approccio Emersoniano, continuando con uno stile da “pop progressivo” che sfocia in un espressivo assolo di chitarra. Più caotica la successiva e breve “What Side You’re On”, dove però va innanzi tutto rimarcato l’assolo ancora una volta sulle sei corde, a cui segue un andamento trionfale che non è difficile ricondurre proprio agli EL&P più tronfi. A questo sfarzo occorre frapporre “Black of Night”, una ballata di sei minuti che va collocata nello stile AOR, felicemente contaminata ancora una volta dal folclore irlandese e che comunque si dimostra varia e progressiva nella sua concezione.
Il prog, seppur più “commercializzato”, torna tramite “Killer of Hope”, che sembra evidenziare l’intento di intervallare composizioni più dilatate ad altre più concise e dirette; in questo caso si registrano evidenti contatti con l’album d’esordio, ma qui c’è molta più concretezza, registrando una convincente alternanza tra tastiere e chitarre. “Missing Piece” torna ad atmosfere in cui qualcosa sembra incombere, sfociando in un assolo chitarristico che in altri tempi sarebbe stato definito “lirico” o magari “descrittivo”, per poi terminare col drammatico finale caratterizzato ancora dalla chitarra e dalla musica che termina di colpo. Ormai è un dato di fatto: dopo un paio di pezzi così arriva l’immancabile ballata. “A Bond of Union” pare sia dedicata da Berry alla propria madre e chi ha ascoltato i vari cantautori rock a stelle strisce soprattutto negli anni ’80 avvertirà un evidente sensazione di già sentito, anche se qui non vi sono per fortuna suoni plastificati ed anzi il pianoforte contribuisce a donare profondità. Ma il pop torna a fronteggiare il prog nei sei minuti di “The Devil of Liverpool”. Prog che si rivela maggiormente nelle parti strettamente strumentali, che per fortuna prendono il sopravvento per lunghi tratti, denotando un notevole lavoro al basso e poi all’organo Hammond nel finale, ricordando molto brevemente la famosa “Tarkus”. Simpatica “Emotional Trigger”, in cui un certo smooth jazz contribuisce a creare l’ambientazione da locale notturno raffinato, anche se appare più che altro un piacevole riempitivo prima di ascoltare “A Fond Farewell”, apprezzabile soprattutto nella seconda parte. Si termina quindi con quella “Never” citata più sopra, composta con Keith Emerson (e anche suonata? Si attendono conferme). Come in apertura, anche qui si sfiorano i nove minuti e la si apprezza decisamente meglio quando si comincia a lasciarsi andare ai duetti tastiere-chitarra. Comunque un po’ troppo lunga, avrebbe necessitato di una sforbiciata di alcuni minuti.
Si chiude quindi la trilogia e Robert Berry, come già detto, probabilmente lo fa nel migliore dei modi, soprattutto per chi apprezza l’ammiccamento a certo rock americano. Il tributo all’amico Keith è stato portato a termine mantenendo comunque la propria attitudine musicale, chiudendo un lungo capitolo di vita che non andrà certo dimenticato. Adesso, si può definitivamente guardare avanti.



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Michele Merenda

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