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NEBULOUS SUN First tale Baboon Fish Label 2021 FRA

Durante il suo lungo girovagare, il chitarrista e cantante francese Jéremié Goubault compone una manciata di pezzi che oscillano tra la psichedelia e il prog, da identificarsi più che altro con la “succursale” scena di Canterbury, dando quindi anche un occhio alle strutture jazz-rock, per quanto ritenute sempre un po’ “strambe”. Jéremié – che oggi vive tra la Francia, la Polonia e l’India – ha quindi messo insieme i Nebulous Sun, incidendo tra il 2019 e la fine del 2020 questi sei pezzi che si articolano in quasi tre quarti d’ora di musica, per un esordio che al momento è stato pubblicato in sole trecento copie. Ha chiamato a sé Charlotte Pacé al violino, Captain Flappatak alla batteria e Kevin Brosses al basso. Proprio quest’ultimo risulta un elemento portante col proprio strumento, alla luce di partiture ammiccanti a quei King Crimson che negli anni ’70 tornarono sulle scene sfruttando la stessa tipologia di formazione con cui oggi si presentano i transalpini. Diciamo pure che i riferimenti apertamente dichiarati vanno individuati anche nei connazionali Magma e soprattutto nei Gong di David Allen, che avevano molto da condividere col territorio francese (anche il nome della label potrebbe passare per una invenzione di Allen).
“Come to pass” viene aperta da una secca nota di basso che istantaneamente porta ad un’introduzione tipo quella de “Il Ballo di San Vito” ad opera del nostrano Vinicio Capossela, per poi passare subito a qualcosa di molto più crimsoniano. I passaggi strumentali sono tutti da seguire, tra il basso profondo e dominante, il violino come strumento solista, la chitarra che inserisce riff per riempire gli spazi e la batteria che deve infine adeguarsi a tutto questo. Anche la parte cantata è inserita nei canoni della band di Mr. Fripp, con una certa tranquillità, riprendendo poi la caotica parte strumentale. Interessante la seguente title-track, dai tratti quasi bucolici di un cantato che potrebbe vagamente ricordare quello del primo Greg Lake. Salvo poi tornare più abrasiva che mai, sfociando subito dopo in lassi di quiete apparente, connotati sempre da una tensione vibrante e contenuta a forza. La chitarra distorce, il basso pulsa… per poi far cadere tutto nel vuoto.
Questo è il passaggio che porta verso qualcosa di differente, cioè ai quasi dieci minuti di “Vacuité”, cantata metà in inglese e metà in francese. Un testo molto visionario, così come la prima parte, dove un po’ il violino e un po’ la chitarra accompagnano la declamazione lungo lo scandire inesorabile della sezione ritmica. La tensione monta sempre più, fino ad arrivare all’eccentricità di casa Gong. Alla succitata sezione ritmica viene lasciato molto spazio, mentre vanno pian piano echeggiando gli stridori di chitarra e violino, con fare molto avanguardistico. Poi sembrerebbe che Goubault si vada improvvisando novello Steve Hillage, ma è solo un’ulteriore illusione verso il nervoso delirio, dove le dissonanze dello strumento ad archetto sostituiscono quelle che abitualmente erano appannaggio del sassofono. Una sostituzione di ruoli che avviene anche in “Bargain”, in cui sarebbe stato interessante ascoltare degli strumenti a fiato in questa sghemba partitura simil-mediorientale. Anche qui, il cantato nello stile di Greg Lake pone fine alle dissonanze esasperate, per riplasmarle sotto altra forma. Un ritorno alla calma apparente che continua su “Demiurge”, cantata inizialmente in lingua madre e poi in quella anglofona. Oltre nove minuti dove ogni tanto ci sarebbe stato bene qualche flauto. Il pezzo si trascina in maniera fin troppo stanca, per poi finalmente rivitalizzarsi con l’ennesimo gran lavoro di basso. Un pezzo che fa viaggiare decisamente verso l’esasperazione, quindi occorre terminare con la più quieta “Aim of claims”. La musica si va poi articolando sempre in maniera dissonante, ma magari meno furibonda. Davvero tosto il riff di basso tra i tre e i quattro minuti dopo le note soliste della chitarra, su cui comincia a vagare il violino e pian piano disegnare uno scenario eccentrico. E superati i cinque minuti si torna a correre decisi verso la follia, nuovamente a tinte color Cremisi. Peccato che lo sfogo chitarristico nel finale duri poco.
Termina così un primo lavoro che era cominciato in maniera molto interessante ma che poi si è dilungato un po’troppo e che ha avuto piacere di specchiarsi nella propria anomalia. Sicuramente occorrono più ascolti per apprezzare meglio questo tipo di proposta, ma c’erano i presupposti per mantenere comunque alto l’interessa lungo tutto l’arco di tempo. Così non è stato; forse si riuscirà a focalizzare meglio le proprie indubbie abilità già dalla prossima uscita.



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Michele Merenda

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