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HUNKA MUNKA Foreste interstellari Black Widow Records 2021 ITA

Quello di Roberto Carlotto è un nome poco noto agli odierni ascoltatori di rock progressivo, ma che invece – assieme al suo pseudonimo Hunka Munka (affibbiatogli da Gilberto Amati, proprietario dello storico locale Altro Mondo di Rimini) – accenderà qualche ricordo a chi apparteneva alle precedenti generazioni. Proprio con questo soprannome, infatti, nel 1972 il tastierista/cantante varesino aveva dato alle stampe il controverso “Dedicato a Giovanna G.”, pubblicato su Dischi Ricordi. Carlotto si è sempre caratterizzato per l’uso imponente delle sue tastiere, anche dal punto di vista propriamente numerico; anche all’epoca, il giovane musicista aveva basato il proprio esordio solista su full-length (preceduto comunque da 45 giri) sull’uso magniloquente di questa pletora di strumenti, anche se i risultati possono essere ritenuti quantomeno… altalenanti. Con lui, in quel lavoro, nomi di tutto rispetto come il bassista Gianfranco Lombardi (i Ribelli, con Adriano Celentano), il batterista Nunzio ‘Cucciolo’ Favia (Osage Tribe) e il chitarrista Ivan Graziani (destinato a diventare famoso come cantautore). Proprio con quest’ultimo, Carlotto aveva in precedenza militato negli Anonima Sound. Un percorso che comunque era cominciato già prima, con varie compagini in Svizzera, Inghilterra, aprendo anche concerti per nomi del calibro di Colosseum, Uriah Heep e Yes al Teatro Massimo di Milano (anche se la testimonianza del diretto interessato non è in questo caso certa). Facendo poi un salto in avanti, dopo le collaborazioni con Alberto Radius e i Formula 3, nel 1974 sarebbe cominciata l’avventura con i Dik Dik (senza dimenticare la breve esperienza poi con gli Analogy).
Questo ritorno sulle scene con il vecchio nomignolo, in compagnia del tastierista calabro Joey Mauro, era in programma da alcuni anni, poi momentaneamente sospeso. La collaborazione tra i due, comunque, era già in atto con gli pseudonimi di Karl Otto e Sir J., all’insegna di sperimentazioni elettroniche. Il nuovo lavoro, come era lecito aspettarsi, segna un ritorno alle sonorità seventies del panorama italico, riportando pregi e difetti dell’epoca che fu. I due si avvalgono della collaborazione di Marcantonio Quinto (batteria, percussioni), Gianluca Quinto (chitarra), dei bassisti Andrea Arcangeli e Andreas Eckert, oltra all’ausilio delle voci di Alice Castagnoli e Tony Minerba. Il sound è di stampo analogico e rispecchia l’andamento di determinate produzioni tipiche della Black Widow Records; sonorità che sembrano essere tirate fuori da un vecchio cassetto impolverato e che in casi come questo – pur se connotate da indubbio fascino – finiscono non solo per impastarsi con le parti vocali, ma in certi passaggi (specie quando la batteria pesta di brutto) danno la sensazione di creare quei vuoti poco gradevoli che erano tipici di certe registrazioni, soprattutto su musicassetta. Non a caso, il pezzo migliore risulta la strumentale “I Cancelli di Andromeda”, dove la chitarra elettrica si affianca a organo e sintetizzatori, per un risultato finale decisamente divertente, che nella seconda parte assume connotazioni più solenni grazie a delle soluzioni maggiormente incisive. La tematica delle visioni cosmiche, come da titolo dell’album, è sparsa un po’ ovunque, in primis ovviamente negli oltre undici minuti della title-track. La storia spaziale qui cantata sembra chiaramente rifarsi ad una sorta di esperienza psichedelica che si sviluppa nella mente, per approdare verso piani più elevati. Il fatto è che tutto potrebbe passare per la sigla di qualche programma avveniristico di fine anni ’70, per non parlare di alcuni passaggi che sarebbero stati divertentissimi in certi cartoni animati fantascientifici, che poi sarebbero stati a loro volta ballati con grande felicità una volta diventati adulti in feste nostalgiche. Anche qui, più convincenti risultano i brevi passaggi di chitarra elettrica messi in risalto, che a questo punto avrebbero potuto occupare uno spazio di tempo più ampio, pur rimanendo nel medesimo minutaggio. Pezzo che poi prevede anche un assolo di batteria, in stile live. Un buon equilibrio viene invece raggiunto con “Amanti Come Noi”, brano che sarebbe potuto appartenere ai New Trolls più cantautoriali e che guarda a quel pop italiano malinconico (sempre leggermente “progressivizzato”) degli anni ’70, testo ovviamente compreso. Finale comunque orrendo, lo avrebbero potuto studiare decisamente meglio, anche volendo essere ironici. Invece il pezzo termina praticamente di colpo e subito dopo si sente una voce femminile che dice: «Due amanti come noi…» con tono non propriamente azzeccato, ad essere generosi. Poi ci sarebbe “Idee Maledette”, dalle sonorità che un tempo volevano essere avveniristiche e tecnologiche ma che non hanno superato indenni i successivi decenni. Le strofe sono però molto gradevoli, con rimandi strumentali ai Camel. Le parole delle suddette strofe risultano ben concatenate e musicali, mentre il ritornello suona forzato. C’è infatti uno sbalzo netto, che dal prog – seppur tendente al cantautoriale – passa a qualcosa che sembra non entrarci granché, più affine alle composizioni di Alberto Fortis, con una resa sonora peraltro piuttosto scarna e un po’ sfiatata. Nella seconda parte si sfocia anche tra hard-prog e dark-prog, sottogeneri spesso tra loro affini. La sensazione che sia stato messo qualcosa sul microfono di registrazione si sente anche sui due minuti strumentali de “La Solitudine delle Stelle”, dove un malinconico pianoforte notturno accompagna dei vocalizzi nello stile dei vecchi film dell’epoca, in cui – con cadenza regolare – si sente il suono di una specie di goccia che si espande, molto simile al famoso “ping” che ha caratterizzato “Echoes” dei Pink Floyd. Ma anche qui, il suono si propaga terroso (non viene in mente altro aggettivo), sicuramente non nitido. L’album era stato aperto da “La Dama della Foresta”, con delle belle e spedite evoluzioni tastieristiche seguite da riff hard rock e decisi colpi sulla batteria. Il cantato di Carlotto qui somiglia a quello di Maurilio Rossi dei Goad, ancora una volta scarno però positivamente essenziale, anche perché ben doppiato dalla voce femminile in secondo piano, peccato quindi per la solita scarsa definizione. Buono comunque l’uso dell’organo Hammond, seppur centellinato, che spezza molto bene attorno al quinto minuto. Più o meno sulle medesime coordinate la successiva “Brucerai”.
Un prodotto indicato per i nostalgici/completisti di una determinata epoca musicale italiana, in cui c’erano molte uscite buone ma al contempo non era certo tutto oro quel che luccicava. Questo ritorno del musicista lombardo ribadisce il concetto, solo che si tratta di un lavoro attuale e quindi può risultare tanto anacronistico quanto fascinoso (proprio per i suoi difetti). Molto bella la copertina, ad opera del fidato Joey Mauro.



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Michele Merenda

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