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ARTHUAN REBIS Sacred woods Black Widow Records 2021 ITA

Dietro l’alchemico monicker a cui è attribuito questo coraggioso parto dell’etichetta genovese Black Window, si cela il polistrumentista e compositore ligure Alessandro Arturo Cucurnia, anche scrittore, operatore sonoro, concertista internazionale e studioso di tradizioni musicali e spirituali d’Oriente e d’Occidente. La sua formazione musicale, come si legge nella presentazione, è caratterizzata dallo studio e dalla pratica di stilemi musicali lontani nello spazio e nel tempo, che spaziano dal folk nordico e celtico alle tradizioni orientali (India, Cina, Mongolia), dalla musica arcaica a quella barocca e medievale, fino alle contaminazioni più sperimentali e moderne.
Come questa eloquente introduzione potrebbe già suggerire, la terza opera da lui pubblicata con tale sigla, dopo “Spells, Spirits and Spirals” (2016) e la tiratura limitata de “La primavera del Piccolo Popolo” (2020) - ma Alessandro può vantare altre esperienze discografiche in altra guisa: The Magic Door, In Vino Veritas, Antiqua Lunae – è immersa in un immaginario sonoro e spirituale legato ad un certo folk pagano, impreziosito da sfumature progressive e, in minor misura, elettroniche. Non a caso, a chiusura dell’album troviamo un’ottima cover di “Diana”, uno dei brani più conosciuti dei Comus di “First Utterance”, che trovavano nello stesso immaginario l’ispirazione per il loro folk-rock malato e infarcito di pulsioni ancestrali. In realtà, la proposta di Arthuan Rebis risulta in definitiva molto meno selvaggia e “animalesca”, pur mescolando episodi riflessivi ad altri in cui il canto gutturale di una certa tradizione nordica rende il tutto meno rassicurante (si ascolti “Kerunnos”, dedicata al Signore delle foreste). Gli strumenti sono prevalentemente acustici, con un ruolo di spicco ricoperto dalla nyckelharpa, strumento musicale ad arco della tradizione svedese imparentato con la ghironda e da strumenti solitamente associati al folk irlandese (arpa celtica, tin whistle, bodhrán), galiziano (gaita, la cornamusa spagnola), slavo (fujara, il flauto dei pastori) ma non sono da trascurare le influenze dall’Oriente vicino e lontano apportate da sporadici interventi della tabla o di pezzi anche più esotici come bawu (un aerofono cinese) e santur (una specie di cetra mediorientale).
L’atmosfera del disco può definirsi senza dubbio fiabesca, onirica, suggestiva e notturna; al centro di esso è l’albero come rifugio primordiale per uomini, animali, insetti, spiriti. Il folclore assume tinte misteriose, enfatizzate da interventi narrativi (ad opera di Paolo Tofani, forse il più illustre di una schiera di ospiti tra i quali citiamo anche il percussionista statunitense Glen Velez, considerato il “mago” dei tamburi a cornice e la cantante folk danese Mia Guldhammer) e da vocalizzi che paiono davvero provenire dal cuore di un fittissimo bosco mistico ammantato dall’oscurità. Anche riguardo le lingue utilizzate, Arthuan Rebis si esprime in una moltitudine di forme: italiano, inglese, danese, norreno e… grigio-elfico (!) senza che l’uniformità concettuale dell’opera ne risenta. In tale contesto, risulta notevole anche la tecnica dimostrata dall’autore su tutti gli strumenti maneggiati (Alessandro può vantare una ragguardevole esperienza concertistica), si ascolti ad esempio la sua arpa su “Danzatrice del cielo”, e l’impressione generale è quella di una competenza musicale superiore alla media. Nei mesi successivi alla presentazione dell’album, sono stati divulgati cinque videoclip dei brani forse considerati portanti: “Driade”, “Elbereth”, “Come foglie sospese”, “Runar” e “Fairy dance”, filmati in una location di grande suggestione come la secolare “quercia delle streghe” di Capannori, in provincia di Lucca. Questi video, così come lo streaming dell’intero album, sono disponibili sui canali Bandcamp e YouTube dell’autore e sono certo che potranno costituire un bel viatico nella scoperta di un mondo senza tempo e popolato di suoni antichi e gentili.



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Mauro Ranchicchio

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