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VANEXA The last in black Black Widow Records 2021 ITA

Ritorna in pista uno dei nomi storici della musica dura nostrana, che con il prog non c’entra assolutamente nulla, occorre specificarlo. Liguri, della provincia di Savona, i Vanexa nascono intorno al 1979 in piena esplosione della ormai famigerata NWOBHM. Contemporanei di Vanadium, Sabotage e Strana Officina, il loro debutto omonimo del 1983 è stato anche indicato come il primo album italiano di autentico heavy metal. Passati da ritiri (almeno apparenti) dalle scene e poi clamorosi ritorni, della prima formazione ufficiale rimangono solo il bassista Sergio Pagnacco ed il batterista Silvano Bottari. Questo quinto album viene pubblicato dopo cinque anni dal precedente, ma probabilmente doveva già esserci qualcosa di abbastanza avanzato in cantiere. Assieme alla storica sezione ritmica si registra la presenza del cantante Andrea Ranfagni, oltre ai due chitarristi Artan Selishta e Pier Gonella (che assieme a Pagnacco è stato nei Labyrinth, interessante prog-metal band tricolore in cui militava il cantante Roberto Tiranti, passato anche lui per i Vanexa).
Il pezzo migliore è senza dubbio “Armless”, con i suoi richiami arabeggianti nelle parti soliste ben supportate da solidi riff, oltre agli immancabili vocalizzi tipici del Medioriente. Una buona alternanza tra parti di ampio respiro (sempre però con un lavoro incessante della batteria) ed altre che diventano più spedite ma mai eccessive. Dopo poco più di quattro minuti, i riff cadenzati che fanno da apripista alla parte strumentale diventano per qualche passaggio di chiara ispirazione Hendrixiana, prima che cominci la schermaglia chitarristica vera e propria, tenendo presente però che il basso suonerà sempre più vibrante che mai. Buona anche la prova vocale e se tutto l’album fosse stato su questo livello, badando alla tensione di certe atmosfere, si sarebbe potuto davvero parlare di un gran lavoro per quanto riguarda il settore in questione. La vena compositiva non è invece la medesima, anche se comunque sono presenti tracce che vanno oltre la sufficienza. Una di queste è la semi-ballad “Dead Man Walking”, dall’ascolto molto piacevole. Per chi vuole qualcosa che viaggi davvero spedito, si rimanda alla conclusiva “Hiroshima”, dove le chitarre corrono alla grande, ma anche all’iniziale title-track, che ha qualcosa degli AC/DC (soprattutto nel ritornello), e alla seguente “My Grave”. Ci sono poi ispirazioni anni ’80 in stile Lion come su “No Salvation!” o su “Dr. Strange”, che ricorda un po’ lo stile di “Wasted Years”, a firma Adrian Smith su “Somewhere in time” (1986) degli Iron Maiden.
Per chiudere, questo è un più che discreto album di heavy rock, a tratti debitore anche della lezione che fu impartita a suo tempo dagli irlandesi Thin Lizzy (occorre però non aspettarsi dei cloni dichiarati, sia ben chiaro), con due chitarre molto agili che sfruttano le scale neoclassiche, basso ben più che presente e batteria instancabile. Ascolto sicuramente piacevole, soprattutto per chi apprezza il genere.



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Michele Merenda

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