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RETREAT FROM MOSCOW The World as we knew it Gravity Dream Music 2022 UK

Quante storie simili a questa abbiamo letto? Una band nata negli anni ’70 che si scioglie senza aver pubblicato (quasi) niente e che, dopo un considerevole numero di anni, decide di rimettersi assieme per cercare di concretizzare in qualche modo la sua vecchia passione. Questa band gallese si era formata sul finire degli anni ’70 per poi sciogliersi pochi anni dopo, con solo qualche concerto ed un singolo come prova del proprio passaggio. All’epoca la musica che proponevano si attestava nel campo del rock melodico; questo primo album, che giunge 40 anni dopo lo scioglimento, percorre i sentieri di un Prog sinfonico con decise tinte new Prog, non esente ovviamente da un residuale background AOR.
I quattro membri fondatori, che comunque avevano continuato a lavorare in ambiti musicali, hanno deciso di riformare la band nel 2016, per pubblicare finalmente un album sotto questa sigla, con materiale vecchio ma anche di nuova composizione, salvo dover rimandare ulteriormente il proprio progetto a causa della pandemia. Ad inizio 2022 finalmente “The World as we knew it” riesce a vedere la luce, con tutta la forza di suoi 70 minuti e passa di durata; ne è infine valsa la pena? Ascoltiamo un po’…
Andrew Raymond (tastiere, chitarra, cori), John Harris (voce, chitarra, flauto, tastiere), Greg Haver (batteria, synth, cori) e Tony Lewis (basso e cori) sono dunque i quattro musicisti che troviamo dietro la sigla Retreat From Moscow che ci propone 11 tracce di durata media tra le quali spiccano solo, in tal senso, gli 11 minuti e mezzo di “Home”.
La musica che possiamo ascoltare, fin dalla prima traccia (“The One You Left Behind”), trae ispirazione da Genesis e Yes della fine dei ‘70s unita ai primissimi vagiti della scuola new Prog che vedeva in quel periodo Marillion & co. muovere i loro primissimi passi e a sonorità più energiche alla Saga e Boston. Il tutto viene confezionato, sia dal punto di vista compositivo che tecnico, in modo convincente, alternando episodi più up-tempo e lineari con brani più elaborati e complessi. “Radiation” ad esempio è un brano veloce e trascinante, un potenziale singolo, ma è seguito da “Henrietta” che, pur con chitarre molto preponderanti, sembra provenire dal repertorio dei primi Marillion. La successiva “I’m Alive”, invece, presenta sonorità che fanno indietreggiare di qualche anno la macchina del tempo, pescando ampiamente negli anni ’70, con un organo Hammond che ribolle nelle retrovie di tutto il brano.
La prima parte della già citata “Home” si situa a metà strada tra Pendragon e Arena, tra passaggi ariosi ed atmosfere più cupe che ci raccontano una storia relativa alla grande guerra. La seconda parte del brano si muove su territori più genesisiani, a partire da un piano alla Banks e una parte centrale strumentale e ariosa su cui si innesta poi il cantato finale su un tappeto ampio e melodico e una chitarra hackettiana (ma non troppo).
L’album prosegue su questa falsariga, con variazioni abbastanza eclettiche ma mantenendo uno stile di fondo che ormai abbiamo già eviscerato. Sicuramente l’attesa di 40 anni è stata ripagata ed abbiamo quindi un lavoro divertente e apprezzabile dai patiti del new Prog britannico ma anche da chi tutto sommato non si riconosce molto in questa sigla.



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Alberto Nucci

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