Home
 
XCIII Void My Kingdom Music 2022 FRA

Questa dovrebbe essere la settima pubblicazione che il polistrumentista Guillame Beringer effettua con la sigla XCIII (tre full-length e quattro EP), anche se nei vari siti online si trova qualsiasi tipo di conteggio, possibilmente includendo anche altri lavori che di conseguenza ne fanno alzare il numero complessivo. Resta il fatto che la sigla di cui sopra (qualcuno ha parlato di un riferimento a “I fiori del male” di Baudelaire, senza però ampliare affatto il discorso) viene creata nel 2009 passando per la collaborazione con tutta una serie di musicisti, descrivendo i tormenti in cui ci si arrovella quando si provano i sentimenti di amore e odio. Per ricreare ciò che già in principio doveva essere “Arte totale”, si era partiti sfruttando il lato più folk del black metal, senza nessun timore di sconfinare anche in altri campi apparentemente estranei come il trip-hop. Bene, negli ultimi anni il sound evolve in quello che il diretto interessato definisce atvantgarde rock/metal, ma che nella realtà somiglia molto ad una dark-wave basata sulla (de)strutturazione elettronica, facendo anche capo alle atmosfere da post-rock. Chiedendo scusa per tutte queste sigle stilistiche – stavolta necessarie per far capire cosa si sta effettivamente descrivendo –, si può aggiungere che accanto a Beringer figura ufficialmente la voce femminile di Maélise Vallez, che però risulta presente solo in quattro brani su nove. Anche se l’iniziale “iR” si apre con una voce di donna su un giro insistito di pianoforte e la Vallez, stando alle note di copertina, compare dal pezzo successivo. Quest’ultimo prende il titolo di “Red Lights” e si mostra fin dalle primissime battute molto inquietante. Le chitarre si fondono con andamenti di sperimentazioni sintetiche in stile anni ’80, cambiando poi a metà composizione e divenendo più contemplativa, grazie all’ulteriore aggiunta del pianoforte di Neemias Teixeira, sulle cui note – ancora una volta – le tonalità femminili scorrono astratte, in una espressione scaturita dalla ricerca dell’inespressività (bel rompicapo concettuale…).
Di sicuro, “Hannah” ribadisce la predilezione dell’autore per le note dei tasti d’avorio accompagnati dalla voce di Maélise, che qui funge da lungo apripista per un’evoluzione basata su varie soluzioni chitarristiche, che vanno dai riff a delle vere e proprie “sottolineature” tipo quelle elaborate da Robert Fripp sempre nel decennio eighties, esprimendo poi la parte cantata in maniera abbastanza tirata poco prima del finale. Risulta interessante “At Last One Never Exists”, col suo arpeggio di chitarra acustica carico di profondità, seguito ancora una volta dal pianoforte, che qui fa vivere atmosfere decadenti; una soluzione attraversata dai cori profondi dettati dalla voce di Guillaume, mentre si vanno man mano materializzando altre inquietudini sotto forma di puntate alle sei corde elettriche, che creano maggiore tensione, scivolando comunque nella parte più oscura di uno strano crepuscolo. “Re” serve a rasserenare un po’ gli animi, dimostrandosi delicata e a suo modo raffinata, preludio a “Rosemary”, con la presenza di Mathieu Devigne al piano e di Giulia Filippi dietro al microfono. Qui, sembra quasi che all’inizio certe basi folk vengano sfruttate per connotare la dimensione dark-wave, per poi aumentare il voltaggio. La voce della Filippi risuona decisa, sicuramente più corposa; peccato che il turbinare delle note scaturite dal pianoforte duri molto poco, perché si mescolava molto bene con le tonalità della cantante. “Lunchbox” sembrava decisamente minimalista, portandosi avanti con frasi ripetute, anche se la Devigne già sembra a tratti più decisa, come lo sono anche certe parti che poi si vanno alternando con un ritmo invece più costante. “Tapeworm” è la traccia più lunga, poco più di sette minuti, e risulta la più riuscita nonché la maggiormente elaborata. Atmosfera e batteria (elettronica?) sicuramente più varie, intrecci sonori che creano stati di ipnosi di natura lisergica, sposando quindi il concetto di “viaggio mentale” nella profondità dei suoni. Un excursus in cui gioca molto anche la chitarra acustica, prima che le soluzioni adottate si induriscano man mano che scorrono i secondi. Ci sono sicuramente vaghi riferimenti ai Pink Floyd sperimentali, soprattutto quelli di “Meddle”, e occorrerebbe concentrarsi proprio su questo aspetto per il futuro, visto che capacità compositive ed esecutive sembrano esserci tutte. Si chiude con “VS”, ancora una volta cupa ed inquietante, che in pochi minuti fa salire qualche brivido, sfruttando definitivamente la capacità di manipolare i suoni e le voci, che qui colpiscono davvero il segno con le loro sortite.
Se tutto l’album si fosse basato sulle trovate degli ultimi pezzi, si sarebbe parlato di un lavoro oggettivamente interessante, indipendentemente dai gusti personali. Tutto quanto viene prima, però, è indicato per una ristretta nicchia di ascoltatori, soprattutto quelli che prediligono l’atonalità come algida forma di espressione. In questo contesto, risulta perfettamente calzante la copertina ad opera di Aurélie Raidron, che ritrae il volto di Naïs Arlaud in un grigiore da sigla notturna di “Fuori orario - cose mai viste” (che se lo ricorda?), immerso in un grigio e profondo mare di oblio. Sicuramente, al di là di tutto, è presente un costante spirito di ricerca, questo è innegabile. L’ascolto è comunque consigliato a chi dileggia l’allegria, preferendo magari le oscure e piovose giornate di tardo novembre (soprattutto nel Settentrione), a cui la bella stagione deve ciclicamente far posto.



Bookmark and Share

 

Michele Merenda

Italian
English