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KNEKKLECTRIC Alt blir verre Apollon Records 2022 NOR

A sfatare certi luoghi comuni, che vorrebbero il rock dei paesi scandinavi costantemente infarcito di brumosa malinconia, ci pensano alcuni dischi pubblicati di recente: mi vengono in mente i recenti lavori di Trojka e Suburban Savages, per non citare i “pazzoidi” Tusmørke, le cui influenze nordiche si palesano sì, ma sempre con evidente e grottesca ironia, o addirittura i bravissimi e negletti Procosmian Fannyfiddlers, che meriterebbero l’inclusione in una categoria a parte per le loro assurde attitudini scatologiche. Nel caso dei norvegesi Knekklectric, qui alla terza prova (a ben cinque anni di distanza dal precedente “For mange melodia”, che seguiva un esordio pubblicato solo in vinile a tiratura limitata), la solarità della proposta e un’apparente modernità che ai meno attenti li farebbe scambiare per un gruppo indie-rock si contrappone una certa ruvidezza – anche vocale - forse figlia del “Progg” storico, nonché una propensione a soluzioni dal sapore fusion quando non pienamente “canterburiane”.
Aggiungiamo che – scelta oggigiorno non scontata - il quintetto sceglie di esprimersi nella lingua madre, in particolare nel dialetto di Ålesund, particolare che aggiunge fascino e originalità ai sette brani di durata media, i cui pregi risiedono nella capacità di giustapporre strofe un po’ spigolose a refrain di sicura presa, nel giusto equilibrio tra le parti vocali di Johannes Drabløs Maaseide e gli intrecci strumentali (le tastiere fanno la parte del leone, ma infrequenti sono gli assoli, la band non contempla veri protagonisti) e nell’equilibrata economia sonora in genere. Per via del copioso utilizzo di parti corali e per qualche soluzione di vago stampo Gentle Giant, a volte saremmo tentati di definire i Knekklectric come degli Echolyn europei un po’ più introversi, anche se le frequenti inflessioni jazzate (specialmente nei synth e nel piano Wurlitzer di Hogne Aarflot, cui danno manforte i frequenti interventi di vibrafono dell’ospite Alexander von Mehren) rimandano più ad eroi del passato come National Health o Gilgamesh.
Difficile stavolta citare qualche titolo che si distacchi dal resto, trattandosi di un album dal carattere piuttosto omogeneo (ma mai noioso!), ma sono rimasto particolarmente colpito dal trio di brani posti in apertura: “Angra på” esordisce con un’introduzione pianistica ma può essere presa ad esempio di quante idee i nostri siano capaci di riversare in soli sei minuti, pur non discostandosi troppo dalla forma-canzone: c’è una palpabile gioia di suonare nella chitarra di Edvard Brøther, nelle serpentine di basso di Erlend Alm Lerstad e nei fill di batteria di Jon Bolstad, coadiuvato dalle percussioni del navigato ospite Iver Sandøy. Nella title-track i ritmi paiono rallentare, evocando i Caravan di metà anni ‘70 ma lo sviluppo dei brani è imprevedibile, basta poco per ritrovarci ad inseguire frenetiche traiettorie di tastiere tra gli sgraziati vocalizzi di Johannes; la coda strumentale è notevole ed ecco che il fantasma degli ultimi Echolyn fa capolino. Un organo di scuola Canterbury apre la scattante “1992”, che assume connotati più moderni nelle sezioni vocali, per presto trasformarsi in una festa di synth analogici nei preponderanti segmenti strumentali, mentre la chitarra, quando esce dalle retrovie, si fa strada con insistenti riff che formano una perfetta controparte al dominio delle tastiere. L’album prosegue senza deviare troppo da questi schemi, a volte accentuando il lato fusion/funky anche grazie all’utilizzo di un Clavinet (“Beksvart gull”) concludendosi con l’unico episodio più dimesso “Se på me no” (“Guardami ora”) che giustapponendo intimismo e crescendo fa un po’ il verso al post-rock.
I nostri ragazzi norvegesi non si prendono affatto sul serio, la stessa grafica di copertina e il titolo (si traduce in “Tutto peggiora”) rivelano una nota ironica di fondo che ce li fa apprezzare ancor più; la scrittura dei brani dimostra un’invidiabile maturità e la contaminazione tra vintage e moderno è pienamente riuscita: concedetegli un ascolto, magari curiosando nella loro pagina Bandcamp, potreste restarne affascinati.



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Mauro Ranchicchio

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