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FREN All the pretty things autoprod. 2022 POL

“Fren” in greco antico significa “mente” e ritroviamo questo termine anche in italiano, all’interno di parole come “schizofrenia”. Non so se questo giovane quartetto ucraino-polacco di Cracovia, avesse in mente questo particolare significato, che invece è l’elemento che ha catturato fin da subito la mia attenzione, ma la cosa certa è che non abbiamo a che fare con nulla di cervellotico. I Fren debuttano nel 2019 con l’EP “Heavy Matter”, seguito l’anno successivo dal primo album su lunga distanza intitolato “Where Do You Want Ghosts to Reside” che si è fatto notare nel nostro panorama musicale. La stessa formazione viene confermata per questo secondo LP con Oskar Cenkier al piano, ai synth e al Mellotron, Andrew Shamanov al basso e ai synth, Michał Chalota alle chitarre e Oleksii Fedoriv alla batteria.
La loro forma strumentale è a tratti davvero molto essenziale, seppure elegante e in alcuni casi mi fa pensare ad una buona impalcatura sonora ancora tutta da arricchire e sviluppare appieno. Questo è vero per “Hammill”, l’esile traccia di apertura, costruita su timidi elementi pianistici e su atmosfere rarefatte e Floydiane. Molta cura è riposta nella scelta dei suoni e delle melodie che esprimono un sentimento di dolce nostalgia con tonalità dal sapore nordico, ma tutto questo sembra un punto di partenza verso qualcosa che in definitiva non arriva mai. “Wiosna” è altrettanto delicata e imperfetta, dalle colorazioni spente e dalle suggestioni attutite. I suoni si allungano con i loro fiochi riverberi, lasciando spazio alla chitarra la quale si prodiga in riff ed assoli che si espandono in una ambientazione ovattata che ricorda un po’ i Riverside. Seppure nella loro imperfezione queste composizioni conservato un loro fascino tutto particolare, nella loro suadente morbidezza, apparendo forse meno incisive rispetto al più centrato debutto.
Mi sento di citare in particolare l’introversa title track, densa di elementi psichedelici, con i suoi loop e le sue delicate divagazioni ma soprattutto la conclusiva “Turque”, una lunga traccia di 24 minuti che mi ha fatto ricredere circa le buone qualità di questo gruppo che riesce ad esprimere appieno se stesso proprio in questa sorta di suite. La musica si elettrifica e prende corpo, si sporca di contaminazioni e segue finalmente percorsi meno prevedibili. Il sapore sembra a tratti quello di una colonna sonora sullo stile di band come Morte Macabre, con corposi riverberi psichedelici e vistosi spunti Crimsoniani. Il brano si sviluppa in diversi movimenti con passaggi di scena ricchi di sinfonicità ed idee piuttosto scenografiche sviluppate con cura, dimostrando che il gruppo ha la stoffa per poter realizzare se stesso e idee su cui poter lavorare più a fondo in futuro, distinguendosi da altre realtà musicali.
Giudico questo lavoro come un piccolo passo falso rispetto al passato e allo stesso tempo come un punto promettente per una bella ripartenza, in attesa di una nuova opera che spero non tardi troppo ad arrivare.



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Jessica Attene

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