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JACK O’ THE CLOCK The warm, dark circus JoTC 2023 USA

Albrecht Dürer, massimo esponente della pittura rinascimentale tedesca, non vide mai un rinoceronte dal vero ma nel 1515 ne eseguì un’incisione, divenuta poi molto celebre, con la tecnica della xilografia su legno, basandosi unicamente su una descrizione contenuta in una lettera. I particolari anatomici ne risultano inesatti ma la versione dell’animale che ne scaturisce è per certi aspetti verosimile ma allo stesso tempo incredibilmente esotica e surreale. Capiamo benissimo che si tratta di un rinoceronte ma la sua immagine appare come trasfigurata dalla creatività dell’artista. E’ assolutamente impossibile non subirne il fascino e tutte queste sensazioni traspirano perfettamente da questa insolita creatura che è l’ottavo album in studio dei californiani Jack O’ The Clock. Vi è in particolare un lungo brano che si intitola appunto “Dürer's Rhinoceros”, al quale la copertina stessa del disco si riferisce, che farà emergere piacevoli suggestioni narrative grazie ad una descrizione sonora poliedrica, insolitamente assemblata.
Damon Waitkus, multistrumentista e anima del gruppo, è sempre stato un maestro nel mettere assieme influenze musicali di diversa estrazione in modo creativo ed estremamente personale, donando forme semplici a idee musicali complesse, facendo confluire spietati elementi avanguardistici in una formula piacevole che non prescinde dalla cantabilità. Per questo suo stile unico ricordo con piacere le belle produzioni del passato, che partono nel 2008 con “Rare Weather”, e con piacere ancora più grande prendo atto che questo nuovo lavoro ha soddisfatto ogni aspettativa, spingendosi se possibile anche oltre.
Qualche parola va sicuramente spesa sul ricco organico di musicisti di cui Waitkus ama circondarsi. Egli stesso, oltre a cantare, suona chitarre, pianoforte, flauti ed il dulcimer martellato, strumento che conferisce una piacevole impronta etnica ad uno stile musicale assolutamente multiforme. Un esempio delle potenzialità di questo strumento lo assaporiamo subito nella traccia di apertura, la Genesisiana “The Ladder Slipped”, con le sue riconoscibili influenze folk americane corroborate da elementi etnici di provenienza indeterminata. Troviamo poi Emily Packard al violino e alla viola, Kate McLoughlin al fagotto, Josh Packard al violoncello, Ben Spees alla chitarra microtonale, Art Elliot al piano, Karl Evangelista alla chitarra elettrica, Myles Boised al pedal steel, Victor Reynolds al flauto dolce, alla chitarra, all’armonica e alla voce, Thea Kelley alla voce, Ivor Holloway al sax, Jon Russell ai clarinetti, Keith Waters al sax baritono e, per chiudere, la sezione ritmica con Jason Hoopes al basso e Jordan Glenn alla batteria ma anche ai synth e alla fisarmonica.
Vi rendete conto che abbiamo a che fare con una piccola orchestra e sicuramente ogni strumento è funzionale al raggiungimento di una dimensione sonora densa ed opportunamente stratificata. Alcuni brani, parliamo di quelli più estesi, sono frutto di una gestazione molto lunga che si spinge fino alle prime fasi di vita del gruppo. Fra questi ci sono i già citati “Rinoceronti di Dürer”. Atmosfere orchestrali ed aleatorie si espandono con dolcezza, prendendosi i loro spazi con garbo e poi è tutto uno scintillio di sensazioni sonore, fragranze esotiche, costruzioni cameristiche dai tratti avanguardistici con deliziosi elementi microtonali, speziate colorazioni etniche, in un piacevole turbinio di percezioni che ci rimandano a Gentle Giant, Henry Cow e Genesis. L’alito del folk americano si tinge di profumi orientali con nuance jazzy e deliziosamente Canterburyane in un ibrido inebriante. Le idee melodiche di base sono sempre lucide ed intellegibili e si esemplificano in un cantato nitido che viene spartito fra la voce vellutata di Waitkus e quella cristallina di Thea Kelley. Se dovessi scegliere un brano su tutti che possa esemplificare la genialità e la duttilità di questo gruppo potrebbe essere proprio questo.
Ma le sorprese non finiscono qui e “How are We Doing…”, l’altro pezzo esteso, ci sbatte in faccia scenari sonori sconnessi dal temperamento industriale e dall’anima free jazz. I giochi si fanno sicuramente più duri in questa traccia che assieme alla successiva “And Who Will Tell Us?” ci riporta concettualmente all’omonimo album del 2011 dal quale immagino che certi frammenti siano schizzati fuori con violenza. Present ed Univers Zero possono esser chiamati benissimo in causa per questa formulazione bizzarra, complessa e stressante ma ad ogni fase di tensione ne corrisponde una di distensione in cui le tenebre si diradano alla luce soprattutto di parti cantate fruibili e dai contorni morbidi. Melodia e rumori, orchestrazioni e ritmi spezzati trovano una sintesi equilibrata e caleidoscopica, esemplificando quindi la familiarità e allo stesso tempo l’esoticità del nostro rinoceronte. Alcuni episodi sono semplicemente deliziosi, come la poetica ballad “This Is Just What It Seems” o come la delicata “Snowman on a Ledge”, fragile miniatura che chiude con semplicità un album complesso ed affabile da esplorare con curiosità ed avidità.



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Jessica Attene

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