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ART ROCK CIRCUS Tell a vision Tributary 2004 USA

Il nome di questo ensemble, indubbiamente, è rivelatore. Si tratta di un gruppo intenzionato a riproporre i suoni e i temi musicali che hanno segnato l’alba della nostra musica. I brani di questo doppio ci proiettano, pertanto, in un passato lontano: psichedelia, spunti jazzistici, scelte timbriche volutamente datate, cascate di suoni vecchi, incisione grezza e non senza pecche, citazioni un po’ insistite (per quanto in linea con la detta ispirazione e con la voglia di proporre un qualcosa di scopertamente derivativo e già sentito). Domanda: che senso ha, oggi, una musica appunto così emulativa? E’ vero che, dieci anni fa circa, Änglagård e Landberk ci sorpresero tutti con una manciata di album seminali e molto settantiani nei suoni, tuttavia la loro qualità era fuori discussione. Qui, purtroppo, il risultato è parecchio meno valido. In particolare, il tutto ha un sapore di per sé caricaturale. Se si voleva fare paleo-progressive fine anni Sessanta, l’effetto è quasi parodistico! Tale accozzaglia di pezzi più o meno lunghi, distribuiti oltretutto su due compact, che paiono non finire mai (una pessima scelta), stanca pressoché subito. Ascoltando il secondo cd, soprattutto, non si vede l’ora di arrivare in fondo. Dispiace dirlo, perché di certo gli ARC hanno dalla loro (in mancanza dell’originalità) un evidente entusiasmo. Questo, peraltro, non basta. Anche la preparazione dei musicisti è abbastanza carente. Insomma, di questo progetto si salva poco, e lo dice uno che ama moltissimo gli anni d’oro del prog e non disdegna i cloni. In questo caso, purtroppo per gli autori e le loro buone intenzioni, si è veramente esagerato.
Dischi del genere, bisogna riconoscerlo, sono destinati a ben pochi passaggi nello stereo degli appassionati... Oltretutto, non è nemmeno possibile segnalare un brano sull’altro: i pezzi seguono tutti lo stesso standard, con un certo spazio lasciato all’improvvisazione e poche melodie che rimangono nella nostra memoria una volta spento il lettore. Circensi e vetusti, come il nome prescelto lascia del resto intendere. Gli undici (!) musicisti si dicono orgogliosi della registrazione ostinatamente analogica: una povertà che, al contrario, è indizio di un prodotto casereccio e raffazzonato. Inoltre, l’ambizione è solo dannosa. A produrre il tutto è John Miner, già autore di “Heaven’s Cafe” (2000): anche in questo caso abbiamo a che fare con un’opera rock trash, che nulla avrebbe di umoristico! Consigliato solamente a chi impazzisce per l’epoca primordiale del prog e vuole magari farsi quattro risate... Quanto all’etichetta, è l’ennesimo tonfo...

 

Davide Arecco

Collegamenti ad altre recensioni

JOHN MINER Heaven's cafe 2000 
JOHN MINER'S ART ROCK CIRCUS A passage to clear 2001 
MANTRA SUNRISE Mantra sunrise 2000 

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