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THE ATOMIC BITCHWAX The local fuzz Tee Pee Records 2011 USA

Questo lavoro è chiaramente indirizzato ad un pubblico specifico: non ha mezze misure, nulla è espresso in maniera indecisa o riflessiva, tutto è diretto e chiaro nella sua esposizione. Eppure, il succo finale, nasce dalla spremuta di molte cose in un calderone unico, fatto di stoner rock, rock psichedelico e space, vagonate di hard blues caricato di fuzz, in un ribollio scoppiettante ad alta temperatura dove il progressive spunta qui e là in atteggiamenti ritmici o concettuali.
La band proviene dal New Jersey e opera nel genere dal 1993 quando il chitarrista dei Monster Magnet, Ed Mundell, decise di formare un poderoso trio con chiara ispirazione alla musica degli anni ’70. Questo è il loro quinto disco, ma già dal 2003 il leader fondatore lasciò la band per dare spazio al tecnicissimo Finn Ryan, proveniente da una band chiamata Core e comunque dedita allo Stoner Rock. Si fa presto a presentare il resto della band che vede Chris Kosnik al basso e Keith Ackerman alla batteria, entrambi molto tecnici e indiscutibilmente centrati e adatti alla faccenda.
Particolarità del disco la sua costruzione con un solo brano, “The local fuzz”, della lunghezza di circa 42 minuti. Un brano che ha tanto il sapore della space jam improvvisata e che richiama alla memoria moltissime cose tra quelle scritte per l’hard rock, per il blues, per lo space psichedelico e per il prog dalle tinte più sanguigne, mantenendo però una buona dose di personalità e di fantasia. Domina quindi la tentazione di ricordare band come Hawkwind, Sabbath e Led Zeppelin, ma in certi momenti il risultato ricorda anche le band più aggressive del southern rock, Lynyrd e ZZ Top in testa.
Essendo un brano unico è decisamente difficile citare momenti migliori. In pratica si tratta di una serie interminabile di riff ingrassati e lubrificati per rotolare meglio e pompare come pistoni di dragster, tra momenti, più secchi e decisi ed altri nei quali si leggono trame più complesse e non così immediate come nella maggior parte del lavoro. Il brano, ormai sarà chiaro, è interamente strumentale e consente al trio di fare uno sfoggio di muscoli e di ego piuttosto narcisistico e disinvolto. La chitarra, ovviamente, padroneggia in maniera esclusiva e spesso irriverente, ma l’amalgama è buona e la sezione ritmica ha spazio in abbondanza. Non ci sono momenti di reale noia, proprio grazie a questi continui e diversi riff chitarristici, ma quello che penalizza, a mio parere, il disco è la mancanza di momenti emotivi a vantaggio di gesti puramente atletici ed energici, forse più efficaci per il genere proposto, ma abbastanza lontani dall’idea generale del progressive.
Detto questo arriviamo ai consigli che sono, come detto in apertura, destinati in maniera molto decisa agli amanti del genere. Io non lo sono, nonostante tutto questo disco l’ho ascoltato diverse volte e sempre con piacere, chissà … se vi va di tentare …


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Roberto Vanali

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