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ACCOLADE Legends autoprod. 2013 USA

Un album così, uno scrigno che racchiude antiche leggende, non poteva che uscire su LP. L’ampia copertina che raffigura la sagoma di una coppa, attraverso la quale possiamo scrutare il profilo di un oscuro castello sul mare azzurro, lascia presagire che ci troviamo di fronte ad un’opera dal fascino antico. Gli Accolade, trio composto da due gentiluomini (Aaron Goldstein che suona tastiere, mandolino, chitarre, basso e organo e Cade Burkhammer alla batteria e alle percussioni) e da una dama (la soprano Stefanie Renée), hanno tratto ispirazione, per questo loro secondo album, da un luogo davvero magico e cioè dal pozzo del calice (Chalice Well) a Glastonbury, in Inghilterra. Adornato da giardini senza tempo, il luogo è antica meta di pellegrinaggi ed è legato alle leggende arturiane, le stesse a cui il sintetico titolo “Legends” si riferisce. Secondo leggenda, Giuseppe d’Arimatea portò da Avalon il Graal, il calice dell’ultima cena, e lo depose sotto la collina dalla quale sgorgò una sorgente sanguinante. La sorgente di Chalice Well, dalle acque rossicce, nasce proprio dal profondo di un pozzo vecchio più di Ottocento anni, racchiuso da un coperchio di quercia sul quale è incastonato, in ferro, un simbolo mistico che ritroviamo spesso nei giardini attorno. Due cerchi che si intrecciano, come a voler raffigurare l’unione di cielo e terra, spirito e materia… Si tratta di un luogo altamente suggestionante che sicuramente ha fatto sentire i suoi effetti nella composizione della musica, oscura e ricca di elementi medievaleggianti ed antichi, e ovviamente nelle liriche, affascinanti e poetiche.
Molto particolare è la breve “Hymn to the Moon Goddess”, una sorta di inno pagano intrecciato da un mandolino arpeggiato che sembra recitato nell’oscurità appena rischiarata dalla luce incerta di tante candele. Il brano è il più antico conosciuto al mondo, risalente al 1400 A.C. circa, e si trova inciso in cuneiforme su una tavoletta ritrovata nella antica città di Ugarit, in Siria. Molto più eterea appare “Elf King”, il secondo pezzo, che inizia dopo un breve strumentale di ingresso all’album, “Gelfing Song”. Possiamo ora renderci davvero conto dello stile del gruppo che elabora canzoni molto asciutte, in stile dark gotico, imperniate principalmente sulla voce di Stefanie, simile a quella di uno spettro, che viene spesso tenuta ai limiti superiori della propria estensione vocale, tesa come una corda di violino e a volte persino stridente. Gli elementi musicali sono appena tratteggiati, prevalentemente acustici, e vengono scelti piccoli particolari diversi di brano in brano. In questo caso troviamo tromba e flicorno che si affacciano solenni di quando in quando e sembrano quasi quelli di un araldo. Il tamburo scandisce il ritmo che è di lenta marcia e il mandolino con le tastiere intreccia melodie medievali. Qui come altrove, la voce acuta di Stefanie caratterizza fortemente il brano, attirando su di sé tutta l’attenzione. Con “The Journey” facciamo ufficialmente il nostro ingresso nel regno di Avalon in un viaggio che culminerà con la monumentale “The Lady of Shalott” che occupa l’intero lato B. La traccia si apre con gli arpeggi delicati e la voce di Stefanie assume ora tonalità che sembrano più naturali e che si legano bene alle atmosfere notturne della musica, con vaghi riferimenti ai Renaissance. Il brano è tagliato da intermezzi elettrificati nei quali interviene anche la voce dell’ospite Nathan Wetter. Il basso pulsante, i riff compatti e regolari della chitarra e certe sonorità ci portano dritti dritti verso la new wave degli anni Ottanta. Come anticipato, sul lato B troviamo un’unica lunga traccia della durata di 21 minuti, suddivisa in quattro movimenti, ispirata al poema di Alfred Tennyson, “The Lady of Shalott” che narra di una donna che vive isolata in una torre, nell’isola di Shalott. Colpita da un malvagio sortilegio, la fanciulla è costretta a guardare il mondo esterno attraverso i riflessi di uno specchio. Qualora infatti dovesse guardare verso Camelot coi propri occhi morirebbe all’istante. Ma un bel giorno scorge dallo specchio Lancillotto e se ne innamora, decide così di uscire dalla torre e di andare incontro al suo destino, spegnendosi lentamente mentre una barca porta il suo corpo ormai esanime a Camelot. Le liriche sono forse uno degli aspetti più interessanti, belle e scorrevoli esse dipingono poeticamente i particolari del triste racconto. La traccia, nonostante sia divisa in quattro parti, appare monolitica, con il cantato che domina gli spartiti e spesso, tenuta così sul filo teso di tonalità acute, sembra persino smorzare il pathos. Le parti strumentali godono di preziose, anche se contenute, aperture sinfoniche, col piano che scintilla come il riverbero dell’acqua colpita dai raggi del sole, i morbidi arpeggi che offrono una sensazione di quiete, l’organo elegante, la tromba e il mandolino. Vi sono poi tenui elementi psichedelici e ampi motivi gotici. Nel complesso bisogna dire che l’album è davvero particolare e brilla soprattutto per quell’alone di mistero e leggenda che lo pervade e che ci fa sorvolare su qualche difettuccio. Una performance vocale più modulata forse avrebbe fatto brillare maggiormente la suite che avrebbe beneficiato anche di una maggiore presenza delle parti strumentali. Capisco che questo modo di impostare la voce è voluto e caratterizza molto alcune produzioni dal taglio gotico ma alla lunga, secondo me, potrebbe rivelarsi anche come un elemento penalizzante. Nulla toglie che l’opera desti curiosità e a modo suo attraente. Se volete provarla, considerate che il vinile, formato che consiglio, è stato stampato in edizione limitata, altrimenti non vi rimane che scaricarvi la versione elettronica, denudata quindi di tutti quegli abbellimenti che possono fare da delizioso complemento alla musica.


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Jessica Attene

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