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ARLEKIN Disguise serenades autoprod. 2014 UKR

Se dovessi giudicare quest’opera unicamente dall’amore e dalla passione che il suo unico ideatore ed esecutore, stiamo parlando del polistrumentista Igor Sidorenko (attivo anche con Krobak, Stoned Jesus e Voida), dimostra verso il new prog inglese, con una predilezione speciale verso i Marillion di Fish, allora dovrei promuoverlo a pieni voti. Nel 2005 Sidorenko rimase infatti letteralmente folgorato da quel tipo di musica ed iniziò subito a lavorare a questo progetto. Nel 2008 ne caricò su MySpace una prima versione, artigianale e grossolana, ripromettendosi però di tornarci su più tardi, con calma e lucidità. Ecco quindi che la promessa è stata finalmente mantenuta e tutto il vecchio materiale è stato eseguito e registrato daccapo. Con tutto questo tempo a disposizione per meditare e trovare soluzioni migliori, considerando che l’artista ha deciso di ripartire da zero, non capisco però perché abbia deciso di non avvalersi di qualche collaboratore, con l’unica eccezione del contributo di Alexandr Kuzovlev dei Vespero per il mixaggio e la masterizzazione.
Se è vero che l’album è stato nettamente migliorato in termini di arrangiamenti e resa sonora, basta ascoltare la ghost track in coda all’ultimo pezzo che comprende la vecchia versione del brano “Dance of the Jester” per poter toccare con mano i risultati, è anche vero che tutti i limiti dell’opera si affacciano con prepotenza fin da subito. Prima di tutto noterete che Sidorenko, seppure imiti a volte, con quel fare teatrale, lo stile di Fish, non ha affatto un’ugola dotata né carismatica, e la sua performance finisce sicuramente per penalizzare un album comunque dotato di belle melodie. Un’altra pecca sta secondo me nel disegno ritmico della batteria, spesso poco dinamico: non viene specificato se si tratti di una drum machine ma così, ad orecchio, la cosa non mi stupirebbe. Peccato poi per certi suoni di tastiere non brillantissimi anche se lo stile ricorda a volte quello caratteristico di Clive Nolan. In questo calderone infatti, non troviamo soltanto netti tributi ai primi Marillion, evidenti anche nel colorato disegno della copertina, ma in generale a tutta quella scena, con richiami diffusi a Pendragon, IQ e Shadowland. A tutto questo si aggiungono poi, a sorpresa, elementi Floydiani, evidenti soprattutto nelle limpide linee di chitarra che viene impiegata in lunghi e melodici assoli. Nella traccia di apertura ad esempio, “The Lost Path”, essa si innesta in un contesto che ricorda molto i primi Pendragon, aggiungendo un tocco di leggera psichedelia ad un brano molto limpido e romantico. La già citata “Dance of the Jester”, Marillionana fin dentro il midollo, si apre in modo solare, con riferimenti agli amati paladini fin troppo entusiastici ed ingenui. Gli spartiti sono un po’ ripetitivi e fanno molta leva sui ritornelli che però, proprio per la voce di Sidorenko, non convincono appieno. C’è comunque da osservare che il mood prevalente dell’album è quello oscuro, seppure intriso di melodie ben intellegibili e sognanti, come ci viene dimostrato da “Romance”, che sfoggia chitarre un po’ sporche e un organo un po’ lugubre sullo sfondo, alla ricerca di tinte drammatiche. Peccato davvero sempre per il cantato, un po’ lagnoso in questo ambiente dai colori spenti mentre, per quel che riguarda il drumming, c’è da dire che è qui gestito al meglio delle proprie capacità, comunque, a mio giudizio, non sufficienti a dare il giusto movimento al pezzo. Molto bello invece il lungo assolo di chitarra, con qualche eco classicheggiante che si percepisce con piacere nell’accompagnamento sullo sfondo e graziosi anche i fugaci tratteggi folkish sul finale che sembrano quasi fatti col bandura. “In this Puzzled Roundabout” parte ritmata e pesantemente scandita dal basso. Anche qui i colori sono opachi e le atmosfere plumbee vengono dilatate da un potente intermezzo psichedelico a tinte Floydiane che rappresenta forse una delle trovate migliori che possiamo reperire nell’album. Anche se il lettore vi segnalerà venti minuti a causa della ghost track che arriva dopo qualche minuti di silenzio assoluto, la traccia di chiusura, “Old Father East”, è in realtà breve, arrivando appena a sfiorare i quattro minuti. Si tratta in questo caso di un piccolo intermezzo strumentale che poco aggiunge a quanto già proposto e che ha in pratica un ruolo di piacevole cornice.
Questo album, che ricorda alcuni bei momenti degli anni Ottanta, ha il sapore di un tributo condito di sano entusiasmo adolescenziale, non privo comunque di qualche condimento personale che ne caratterizza meglio il gusto. Di per sé non ha davvero nulla di speciale ma se lo leggiamo come semplice atto d’amore lasciandoci contagiare da così tanto entusiasmo potrebbe rivelarsi un simpatico canale verso il quale convogliare la propria empatia verso questo genere musicale. Magari potremmo anche far finta che si tratti di un vecchio demo tape scovato chissà dove e l’effetto magico si moltiplicherebbe. A voi se la scelta di stare o meno al gioco.


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Jessica Attene

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