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AMPLEDEED |
Byob |
autoprod. |
2016 |
USA |
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Avevamo lasciato gli Ampledeed nel 2013, anno del loro esordio. Una prima opera decisamente buona, trattata anche in queste pagine, e che aveva lasciato, almeno per il sottoscritto, grandi speranze di proficuo prosieguo. Eccoli ora al secondo lavoro e la primissima cosa da segnalare, anche se in apparenza banale, è che si è praticamente ribaltato il rapporto tra parti strumentali e parti cantate, qui decisamente predominanti. Per fare ciò, al trio base, polistrumentista e canterino, formato da Goldich/Taylor/Flores, si aggiungono quattro ospiti, un batterista – cantante, un secondo bassista e due vocalist pure, così facendo alla voce troviamo ben sei persone, che si sommano, si dividono e si abbandonano in un interscambio continuo e puntuale. Gli effetti, per un gruppo che già ottenne dal loro primo lavoro anche risultati prog-pop oriented, potrebbero far pensare ad una decisa svolta pop, sono invece molto forti e caratterizzati gli stili variegati e spesso complessi del prog più arioso e trasversale. Resta molto deciso quel suono di bilico ricco di componenti XTC/Beatles/Cardiacs nei cantati e l’altro Fripp/Zappa/Gentle Giant per le parti strumentali. Questa balzana commistione è la forza della band, tanto che – scommetterei – chiunque farebbe fatica ad attribuire agli stessi musicisti entrambe le parti. Questo accade, ad esempio nella breve “My Plane” con l’avvio dominato da un cantato teatrale, farsesco e uno strumentale finale davvero notevole o, a parti inverse in “You're a Libra…and She's a Bitch”, dal titolo forse discutibile, ma dai contenuti folgoranti. Molte le parti riconducibili a temi canterburyani, da quelli dada-beat-psichedelici di alcuni cantati a quelli dolcemente tinti di jazz delle sezioni strumentali e in questo l’esempio migliore e perfetto è rappresentato dall’opener “Triple cancer moon”, brano da ascoltare e riascoltare senza sosta o nella mirabile “Monolithium”. Capacità tecniche e leggerezza del tocco, professionalità, varietà e fantasia, sono le carte vincenti del combo che oltre all’intercambio vocale, propongono anche quello, più classicamente progressive tra tastiere e chitarra, lasciando protagonista ora le une o l’altra. Talvolta si vira verso forme più tenuamente avant prog come nella zoppicante “I Will Not Wait” con particolare e interessante gioco di minime dissonanze, ricercate per non spaventare troppo e pure riempire di favolosa e impalpabile atmosfera Canterbury/Henry Cow, grazie anche alla prestazione della brava Allie Taylor. Il brano più lungo del lavoro, sul quale si potrebbe disquisire a lungo è “The Greatest Gatsby”, esercizio così ricco che riesce ad unire funky disco settantiano a disequilibrato jazz rock, parti zappiane a sezioni sinfoniche, ricchissime di tastieroni progressivi. Un brano dall’alta complessità che riesce, in pratica, a fare un riassunto, un excursus, di quello che sono stati 45 anni di musica: divertente quanto spettacolare e provare per credere. A chiudere il lavoro l’undicesimo brano, altro bell’esempio di come si possa passare da atmosfere beatlesiane e da ballad dal sapore riflessivo e drammatico ad uno spumoso e ricco strumentale. Altra grande prova, altro grande disco di questa band che, giudizio personale, si pone ai vertici delle mie attuali preferenze.
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Roberto Vanali
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