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L'ANIMA Departures autoprod. 2017 UK

L’Anima, gruppo inglese, sì, ma più che altro di adozione, visto che il leader Pedro J. Caparros – trasferitosi proprio in Inghilterra – è di sangue catalano e suona anche nei Breed 77, band proveniente da quello strano territorio ibrido che è Gibilterra. In terra d’Albione il chitarrista di Barcellona incontra il cantante Andy Mitchell degli Yardbirds, creando la formazione definitiva con il batterista Iban Sanz, l’altro chitarrista Mauro Paderni ed il bassista Luca Forlani, i cui ultimi nomi tradiscono la chiara origine italiana. Il sound proposto è di quelli difficili da inquadrare nei classici stilemi prog, debitore di Haken e Riverside, che ormai vengono indicati dai vari recensori come gli attuali riferimenti della musica progressiva. Concetto che spacca nettamente i pareri e che allo stesso tempo crea un numero crescente di band. In questo caso sono stati tirati in ballo i Mars Volta, i Pain of Salvation e persino gli Yes; se per i primi e – volendo – anche per i secondi i riferimenti ci possono stare, per la band di Wakeman e soci, che ha contribuito (piaccia o non piaccia) a creare i fasti del rock progressivo, l’accostamento risulta decisamente forzato. Poi, certo, nell’ultimo caso si parla sempre di numi tutelari del genere e quindi di riferimenti spesso obbligati…
Mitchell ha sicuramente una voce molto potente ma i risultati migliori li si coglie durante le parti strumentali, tipo quelle dell’iniziale “Pain of no Return”, tra brevi inserimenti di flamenco e consistenti rimandi ai Dream Theater. È un po’ il caso della seguente “Path To Sirius”, con partiture molto complesse e anche accattivanti, ma che con il cantato suonano decisamente “standardizzate”, come se fossero state fin troppo sentite e quindi uguali a loro stesse. Ma questo non perché – lo si ribadisce – Mitchell sia scarso bensì perché si sarebbe dovuto andare oltre a ciò che ormai viene costantemente proposto. Detto questo, il finale, con l’inserimento dell’organo Hammond (ma chi lo suona?) è assolutamente da seguire. Come è da seguire anche il lavoro di Forlani al basso nella successiva “Gema”, tra chitarre elettriche e classiche che denotano il chiaro influsso latino. “My Dying Cell” vuole essere drammatica, tra cori, cantati tenorili e atmosfera da Nord tardo-autunnale, smussata da rinnovati inserimenti di chitarra classica, mentre “Hold Out” dura oltre nove minuti e al suo interno trova sparse alcune interessanti soluzioni; un esempio può essere quello dei controtempi intorno al quinto minuto, giocati in modo ameno con delle percussioni, ma anche il lavorio delle due chitarre, tralasciando la conclusione affidata ad un esercizio classico sulle sei corde. “My Bloody Silhouette” vorrebbe essere un’altra semi-ballad sofferta ed esistenziale, con puntate dure, che si esprime al meglio nella seconda parte; “The Sound Of Waves”, nonostante il nome, è fin troppo urlata, mentre la conclusiva “The Elephant Cemetery” mette in mostra delle altre interessanti soluzioni strumentali, soprattutto quelle al pianoforte dell’ospite David Vaughan, a cui fanno seguito percussioni e chitarre ispaniche.
Tecnica sicuramente elevata, soprattutto nelle ritmiche, e scelte non banali nelle fasi strumentali. Da rivedere le fasi cantate, davvero troppo appiattite e spesso gridate come ormai fanno buona parte delle band dallo stile analogo.



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Michele Merenda

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