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ART OF ILLUSION Cold war of solipsism 12 Sounds Production 2018 POL

Questo è il secondo full-length pubblicato dal quintetto prog-metal polacco, che in copertina presenta le immagini molto poetiche ad opera di Andrezej Kaczmarek. Una bambina che nel bosco gioca con una luna ad imbrunire ben inoltrato, scelta calzante anche e soprattutto con il monicker del gruppo. Ma anche concettualmente la band non vuole affatto essere banale, tirando in ballo il “solipsismo” citato proprio nel titolo, criterio secondo il quale si può affermare solo la propria esistenza, in quanto qualsiasi realtà si risolve nel nostro stesso pensiero. Un concetto che se estremizzato porta ad un individualismo esasperato, accentrando qualsiasi interesse su di sé e rigettando qualsiasi altra realtà che non rientri nella sfera dei propri interessi. Difatti, i testi risultano molto complessi, andando di pari passo al relativo orientamento musicale. Dopo “Ico”, intro atmosferica ben allineata alle immagini sopra descritte, parte la complicata “Devious Savior”, in cui deve obbligatoriamente essere menzionato il batterista Kamil Kluczyński, ma occorre anche citare la scelta di inserire partiture di chitarra acustica nella seconda parte del brano. La voce di Marcin Walczak si assesta spesso su toni medi, ricordando compagini statunitensi “da strada” che si esprimono in maniera a loro modo “solenne”, ricordando a loro volta James Hatefield dei Metallica; da questo punto di vista ci si chiede come sia possibile che addirittura a livello internazionale ci possano essere tante voci così incredibilmente simili tra loro…
Considerazioni vocali a parte, “Allegoric Fake Entity” viene aperto dal basso jazzato di Mateusz Wiśniewski; il pezzo si alterna molto tra queste basi retro con altre di stampo metalliche, caratterizzandosi per altri inserimenti acustici e soprattutto per l’assolo jazz di pianoforte (velocissimo) ad opera di Pawel Lapuć, seguito da quello chitarristico in stile metal neoclassico di Filip Wiśniewski. “Santa Muerte” è in parte una triste ballata brumosa e gotica, prima di tornare al prog-metal sempre permeato di malinconia, con un lungo assolo di chitarra ed il solito pianoforte che in secondo piano accompagna le ritmiche veloci. “Able To Abide” si apre con tonalità molto più solari e in alcuni momenti potrebbe anche ricordare certi spunti acustici degli Shadow Gallery, ma anche qualcosa dello Steven Wilson solista, con un bell’assolo sulle sei corde. La title-track di otto minuti, in cui viene ricreata una vera e propria guerra, suona troppo lunga e magari risulta più interessante nelle parti strettamente strumentali, mentre la conclusiva “King Errant” riprende le partiture neoclassiche e malinconiche. Dieci minuti in cui certo non abbonda la felicità, dove c’è sempre questo pianoforte lirico sullo sfondo che sembra commentare ogni scena. Le battute finali, però, sono lasciate alla chitarra, sempre e comunque supportata dai tasti d’avorio e poi anche dai cori di Bartjìh Sobieraj che conferiscono al finale un’altra connotazione.
Il risultato complessivo, dopo ripetuti ascolti, è discreto; non ci sono picchi espressivi che facciano desiderare di tornare indietro a riascoltare, se non proprio all’inizio, con “Devious…”. C’è stato comunque l’impegno di creare variazioni all’interno di ciascuna traccia, dando vita ad un lavoro senza dubbio articolato.



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Michele Merenda

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