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ANDRAS ATLASON Atlantis Tutl Records 2022 BRA

Cosa avranno in comune il Brasile con le isole Faroer? A questa strana domanda l’unico in grado di poter dare risposta è probabilmente Andras Atlason, musicista brasiliano, artista grafico e antropologo, figlio di due violinisti, il padre faringio e la madre brasiliana, che compone basandosi su testi poetici appartenenti a queste due culture fra di loro così distanti, e non solo da un punto di vista strettamente geografico.
Già questi presupposti ci danno l’idea di un album unico del suo genere ed il risultato è in effetti un ibrido dal fascino insolito, grazie anche al particolare timbro baritonale di questo cantante e multistrumentista. L’abilità di Andras sta nel creare un insieme musicale coerente in cui i diversi elementi si fondono con grazia e senza sbalzi, non facendoci quasi percepire alcuna differenza quando l’ispirazione si sposta da un continente all’altro.
Il contenitore ampio e variegato del Progressive Rock accoglie in modo appropriato quest’opera che trova molti riferimenti nella musica da camera e nel soft jazz ma che è allo stesso tempo arricchita da tante fragranze etniche che danno luogo ad arrangiamenti pittoreschi ma allo stesso tempo eleganti. L’aspetto poetico non è assolutamente secondario e vengono scelti autori importanti come Fernando Pessoa (“As ilhas afortunadas”, “Opiário” e “Dorme”) ed Alphonsus de Guimaraens, poeta appartenente alla corrente del simbolismo brasiliano (“Ismália”). Due sono le poesie prese in prestito dal poeta e compositore contemporaneo Alexandre Sugamosto (“Nos portões de Atlântida” e “Barco Fantasma”) mentre per quel che riguarda il versante nordico vengono scelti alcuni motivi della tradizione (“Droymdi meg ein dreym í nátt” e “Krummavísur”) ed alcune opere di Janus Djurhuus, considerato il primo poeta moderno delle Faroer (“Atlantis”, “Hitt hvíta liðið”) e del fratello Hans Andrias Djurhuus, apprezzato per le sue composizioni nazionaliste (“Havið sang” e “Í kulda sól”).
Andras non è un musicista di primo pelo ed aveva già realizzato un’opera solista nel 2011 intitolata “Ut” oltre che un EP nel 2013 ed un album col duo prog Da Zai nel 2016 intitolato ”Shogyoumujou”. Forse alcuni di voi lo potrebbero persino ricordare per aver vinto, nel 2011, un concorso internazionale che prevedeva di riarrangiare un brano del gruppo americano Mastodon.
Il Metal comunque non è di casa in quest’opera, fatta eccezione per alcuni inserti un po’ più robusti utilizzati in qualche sporadico episodio. Prevalgono le ambientazioni suadenti, sia quando lo sguardo è volto verso il Brasile e ricordiamo la carezzevole “Ismália”, la languida “Opiário”, con le sue belle orchestrazioni, o la conclusiva ed elegiaca “Dorme”, una sofisticata ninnananna dalle tonalità semiacustiche, sia quando ci spostiamo verso le fredde lande del nord e voglio citare in questo caso “Droymdi meg ein dreym í nátt” con i suoi motivi folk ripetitivi che mi ricordano, complice soprattutto il cantato, qualcosa degli “Hinn íslenski Ţursaflokkur”. Gli elementi tastieristici vengono utilizzati con gusto e parsimonia per far respirare testi importanti che rimangono al centro del messaggio musicale. Per questo l’elemento più importante che catalizza in prima istanza l’attenzione dell’ascoltatore rimane il cantato, a volte drammatico ma spesso tenero e carezzevole. Non mancano preziosi suoni Mellotronici o quelli più corposi dell’organo Hammond che vengono incastonati in un soave mosaico cameristico dove rilucono il violino di Bettina Jucksch, il violoncello di Estela de Castro, il flauto di Dumindu Dassanayaka e l’oboe di Manuel Domenech. Con l’inserimento di inflessioni jazz la musica assume talvolta un taglio quasi avanguardistico come in “Nos portões de Atlântida”, dagli elementi pianistici irrequieti e con i suoi contrasti forniti dalla chitarra elettrica di Tatsuro Murakami. La sezione ritmica è agile e mai robusta e viene sostenuta dal basso dello stesso Atlason e dalla batteria di Flávio Coimbra.
Tutta la grafica dell’opera è stata elaborata dal litografista foringio Marius Olsen a racchiudere come in uno scrigno un’opera introversa ed elegante, poetica e senza dubbio particolare e che andrebbe presa in considerazione per l’insolito fascino che radici così diverse fra loro riescono ad evocare nel loro unico connubio.



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Jessica Attene

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