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BAUER En otra ciudad autoprod./UMI 2006 ARG

E’ piuttosto insolito che una band proveniente dal Sudamerica provi a mescolare al prog sinfonico elementi tipici del post-rock, ma questo secondo lavoro degli argentini Bauer conferma e rafforza l’impressione (piacevole, non fraintendetemi) già suscitata dal precedente “Astronauta Olvidado”.
L’album (probabilmente un concept ambientato lungo una strada nel corso di un’intera notte, ma le liriche sono troppo ermetiche per affermarlo con certezza) si presenta in una confezione elegantissima ed originale sia nel formato che nella grafica, anch’essa in linea con quanto proposto da band come The Album Leaf o Explosions in the Sky con i suoi simboli urbani ed i giochi di luci e ombre.
A dire il vero, se la definizione di post-rock parla di “uso non convenzionale di strumentazione rock”, la stessa si applica almeno in parte alla descrizione del progressive; non si tratta quindi di un accostamento ardito, quanto piuttosto di una contaminazione inevitabile tra due modi intelligenti di intendere la musica, strada già intrapresa di recente con buoni risultati nell’esordio dei Pure Reason Revolution.
La band è un quintetto la cui doppia chitarra è utilizzata in modo rumoristico e impressionista ma mai con ruolo solistico ed un tastierista, Martín Mykietiw, seguace di gloriosi marchi vintage come Moog, Rhodes, Oberheim, Hammond, Farfisa (ammesso che non si faccia uso di timbriche emulate) e uno sporadico impiego del Mellotron. La voce di Gabriel Ardanáz è un gradevole sussurro che accompagna i momenti necessari alla narrazione, a volte registrata utilizzando filtri che la rendono ancora più distante e intangibile. Come già accadeva nel precedente lavoro, negli undici brani proposti colpisce l’uniformità ritmica, che crea l’impressione di ascoltare un’unica lunga suite e questo aspetto è accentuato proprio dalle linee vocali a dir poco oniriche (stavo per dire soporifere, ma sarebbe stata una cattiveria!) e centellinate nell’arco dei 50 minuti del disco.
Il piano elettrico, unito alla gelida voce del Moog e alle tendenze “glide” della chitarra evidenziano quella che risulta essere l’unica parentela con i giganti del passato progressivo: per la precisione i Pink Floyd di Animals (in “Camino a Oxnard” non passa inosservata una chiara citazione di “Sheep”), con cui i Bauer condividono la poetica un po’ claustrofobica e intrisa di depressione urbana.
Avendo un po’ frettolosamente catalogato l’album in un certo modo, il brano strumentale “Diós quiere mi chocolate” riesce a spiazzarmi con il suo ritmo latino e l’arrangiamento con tromba, shaker, güiro ed altre percussioni sudamericane: una piacevole sorpresa così come il feeling tipicamente fusion de “La entrevista”, giocata tra un mellifluo Rhodes ed una chitarra che per una volta si presenta pulita e melodica.
Nonostante una certa carenza nella varietà – che può essere vista sia come pregio che come difetto – ed il rischio di risultare monocorde, a me l’album è piaciuto, ammettendo però di ascoltarlo solo in determinate circostanze, visto che il mood non certo solare può indurre un senso di saturazione. Lo consiglio a chi ama esplorare la zona d’ombra tra i Porcupine Tree ed i Radiohead.

 

Mauro Ranchicchio

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