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BIRIGWA Birigwa Seeds 1972 (Porter 2007) UGA

Siamo nel 1972, quando un giovane musicista Ugandese di nome Birigwa lascia la sua terra trasferendosi negli Stati Uniti per studiare al conservatorio del New England. Qui il giovane musicista, cantante, cantautore e chitarrista, fonda il gruppo omonimo assieme ad altri musicisti jazz, realizzando quest'album. Tra i componenti della band spiccano il pianista e arrangiatore Matt Edey, che pubblicherà l'album per la sua misconosciuta label, la Seeds, Stan Strickland, flautista e sassofonista oltre che autore dell’ultima traccia del disco ("Yelewa"), il batterista Vinnie Johnson e il bassista Phil Morrison, due membri degli Stark Reality, band psych-funk (componente che si farà risentire anche all’interno dell’album) attiva a fine anni '60.
Il disco pur attingendo a piene mani dalla tradizione africana ed in particolare dal folk della tribù ugandese Baganda, non può catalogarsi come afro-music nel senso più puro del termine, ma è una miscela di folk acustico africano, jazz, psichedelia e tropicalia. Il disco fonde in armonia le anime di 4 continenti, Africa, Europa, Nord e Sud America, con garbo e poesia. Le canzoni generalmente hanno un andamento circolare, iniziando quasi sempre con la chitarra acustica e il canto per evolvere poi in maniera bizzarra e giocosa, mai banale per poi finire cosi come avevano iniziato. Lo strumento principale dell'album è sicuramente la voce di Birigwa, ora profonda, calorosa e intimistica, ora in falsetto fino ad impazzire in sorprendenti yodels, ricordando sia i grandi cantanti brasiliani come Jorge Bem e Caetano Veloso, che cantanti d'avant jazz come Leon Thomas, passando ovviamente per i grandi cantanti dell’afrobeat come Fela Kuti.
L'album inizia con la splendida "Okusosola Mukuleke", scritta da Birigwa, che raccoglie in sé tutte le anime dell'album, inizio molto lirico, quasi bucolico, su cui spicca la chitarra che si va ad intrecciare ad uno splendido assolo di flauto, per poi innescare una parte centrale più propriamente jazz che sfocia in improvvisazioni vocali, in cui Birigwa dà prova di tutto il suo ampio range vocale, per poi riconcludersi nella tranquillità acustica con cui era iniziato il pezzo. Inizia Uganda, brano ipnotico e psichedelico che ci trascina nelle tribù dell'Africa nera, guidati da una voce stavolta instabile e granulosa. Poi è la volta del trittico "Lule Lule," "Njabala," e "Kanemu-Kanabili", tre brani di musica popolare dei Baganda, riarrangiati in maniera semplice ma emozionante. Birigwa mostra di trovarsi perfettamente a suo agio tra queste cantilene che a tratti sembrano filastrocche per bimbi, facendo uscire tutta l'Africa che ha dentro e dando prova di utilizzare la sua voce come uno strumento che si amalgama perfettamente con la musica del resto della band. Graziosa e delicata invece la ballata “Obugamba”, dove nella prima parte la voce canta in maniera "normale" per poi trasformarsi nello strumento sovradetto che si va ad amalgamare perfettamente con la chitarra e percussioni tribali. Si arriva poi al pezzo finale “Yellewa”, scritto da Strickland, pezzo forse più jazz, che il sax tenore ci guida tra una miriadi di percussioni africane e il canto sovrainciso di Birigwa che recita una sua poesia "Mosquito Song".
Il disco è stato ripescato dal nulla dall’etichetta Porter operante in ambito principalmente jazz, ma quest’ultima è solo una componente minoritaria all'interno del disco, le splendide parti di flauti e la complessità degli arrangiamenti possono tranquillamente far rientrare il disco negli ambiti di un folk prog con venature psichedeliche, forse unico esempio proveniente dall'Africa nera. Ma non è certo nella provenienza esotica dell'album che il disco acquista valore: Birigwa non vuole ostentare nulla, mai ruffiano, non commette l'errore di altre band africane come Osibisa di cadere nel kitsch. E' una squisitezza per le orecchie, un disco pieno di colori: intelligente, pacato e controllato, ma che al tempo stesso rifiuta ogni sorta di convenzione.
Disco certamente consigliato a tutti coloro che hanno la curiosità di scoprire nuovi mondi, non avendo paura di avventurarsi in percorsi musicali che deviano dal progressive più classico.


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Francesco Inglima

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