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ROBIN BECK The great escape Her Majesty’s Music Room 2011 USA

Parlare di Robin Beck significa ripercorrere la carriera di un’artista che dalla fine degli anni ’70 ad oggi ha lavorato sodo per costruirsi una solida reputazione di AOR singer. Già apparentemente destinata al ruolo di one-hit-wonder, grazie al (o causa del) fortunato jingle commerciale “First time” nel 1988, Robin ha saputo invece perseverare sulla sua strada grazie al suo talento genuino e alla collaborazione con veri e propri veterani degli studi di registrazione (Jeff Porcaro, Michael Landau, Lee Ritenour, Steve Lukater, Paul Stanley solo per nominarne alcuni) nonché alle prestigiose firme in fase di songwriting (Desmond Child, Steve Perry, Michael Bolton i nomi più noti). Molto nutrito anche il suo curriculum in fatto di partnership vocale, potendo vantare duetti con artisti del calibro di Patti Austin e Luther Vandross, anche se qualcuno nel nostro paese potrebbe addirittura ricordarla sul palco in coppia con Pupo!
L’album in questione è il suo ottavo di studio e nasce dalla collaborazione in fase sia compositiva che esecutiva con il polistrumentista Tommy Denander ed il chitarrista James Christian (in forza agli House of Lords). Pur confessando di non aver familiarità con la produzione precedente, mi sento di affermare che tutti gli ingredienti che attendevo di trovarvi sono lì a formare un disco quasi prototipale di AOR. Abbiamo quindi brani orecchiabili e radiofonici guidati dalla potente voce di Robin - a metà strada tra la grinta di Bonnie Tyler ed il timbro più dolce di Pat Benatar - e supportati da un lavoro di chitarra molto “di mestiere”, su cui spiccano l’apertura “The one” ed “Inside of me”, ballads epicamente romantiche (“Don’t think he’s ever coming come”) alternate ad episodi più rockeggianti ma allo stesso tempo più banalotti come “Got me feelin’ sexy”. In mezzo, il dinamico duetto con Joe Lynn Turner (Rainbow, Deep Purple) intitolato “That all depends”, il cui refrain è pericolosamente reminiscente della celeberrima hit di Bon Jovi “You give love a bad name”.
Giudicando l’album nei suoi intenti, posso dire che si tratta di un lavoro di classe, senza troppi riempitivi, che nella sua “tipicità” si lascia ascoltare con piacere (ma nulla più) per tutta la sua durata; la domanda piuttosto è questa: quanti di noi sono veramente interessati oggi a questo genere musicale? Accampare pretese progressive da un disco come questo sarebbe ingiusto e fuori luogo, ma visto che ci troviamo su queste pagine, consiglio a chi già ritiene gli Asia o gli Styx oltre la linea di demarcazione, di lasciar pure perdere…



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Mauro Ranchicchio

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