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THE BADGE Le relazione pericolose Ma.Ra.Cash 2015 ITA

I The Badge, nome tratto da un brano dei Cream, sono uno dei tanti gruppi italiani che per una serie di motivi non ebbero alcuna fortuna negli anni ’70 e che ora, grazie alle varie facilità offerte del mercato, riemergono dalle ombre del passato e si ripropongono agli appassionati, magari proprio con le stesse composizioni che allora erano i loro cosiddetti “cavalli di battaglia”. Non parliamo quindi di giovani alle prime esperienze, ma di persone con svariati lustri di esperienza, di palchi e di innumerevoli concerti tra hard rock e progressive sinfonico e brani classici riproposti in chiave rock.
La band si presenta come quartetto con Angelo Isaia alle tastiere e voce e autore della maggior parte del lavoro, Sergio Isaia per basso, chitarra e voci, Fiore Colombo, chitarre, basso e voci e Pino Atzori alla batteria.
Per l’analisi del disco voglio subito dire che l’ascolto mi ha dato ampie tribolazioni. Le prime due volte ho interrotto l’ascolto prima che finisse la suite iniziale. Poi ho provato a sentire un brano alla volta, con riascolto successivo di due, tre volte. Continuavo ad opporre una resistenza quasi fisica all’ascolto complessivo del disco e, ogni volta, qualcosa mi portava a spegnere il lettore. Quando sono giunto all’ascolto completo, ripetuto e concentrato, mi sono reso conto di terminare il lavoro con enorme fatica e, soprattutto, tanta insoddisfazione e vediamo perché.
L’album parte con la suite “Le relazioni pericolose”, dramma in 9 atti rimandabile alle prerivoluzionarie sofferenze amorose della nobiltà francese e tratto dal romanzo epistolare di fine ‘700 di Laclos. Il brano si sviluppa in quasi diciotto minuti tediosi e affaticanti, nei quali la negatività maggiore è rappresentata dai testi, troppo spesso scomposti, metricamente instabili e inadatti agli spazi melodici. Il testo viene portato avanti senza riuscire a creare alcun coinvolgimento per il tema della narrazione, il picco è la reiterata elencazione dei nobili coinvolti, una sorta di elenco messo in musica del quale stento a vedere l’utilità. Gli inserimenti di frammenti classici (Mozart Pasquini, Respighi) non appaiono integrarsi al meglio ma sono tecnicamente ben eseguiti, come, del resto, tutte le parti di tastiera dell’intero disco. La gestione di una suite, si sa, è cosa complessa: riunire tutte le parti in maniera fluida, organica e coesa necessita di una scrittura molto consapevole di quel che si vuole ottenere; i bridge di collegamento devono essere perfettamente inseriti e consentire l’amalgama delle parti in un tutt’uno coerente. Qui, purtroppo, sembra tutto appiccicato con lo scotch ed è un vero peccato perché alcune parti musicali, prese singolarmente, risultano piacevoli, come la sezione centrale “Intrighi in 7/4”.
“Anni ‘70” è un brano che tratta degli aspetti generazionali tipici di chi ha vissuto un’epoca e la rimpiange, trattandola come la miglior epoca in cui vivere. Tutto vero e tutto personalmente condivisibile. Meno apprezzabile è farcire il testo di luoghi comuni spesso banali e retorici, del tipo: “La nostra droga è la musica”, “i maledetti cellulari”, “si guarda troppa TV”, “l’eterno ricordo di un tempo migliore”, relegando il tutto a quei quadretti di Facebook: “Noi che abbiamo vissuto …” che sinceramente trovo poco importanti, considerato che, alla fine, il problema è essenzialmente riconducibile ad un fatto più anagrafico che morale.
“Ancora un giorno dopo la fine” è brano dalle tendenze hard rock con un testo cupo e un discreto assolo di chitarra, che però presenta una sequenza di quattro battute intere presa pari, pari da “The love in your eyes” dei Caravan, buone e dinamiche, come sempre, le parti di tastiere.
“Sotto il cielo d’Africa” è un altro rock lesto, dalle tinte hard e una discreta sezione centrale strumentale. Qui oltre alle negatività del testo, zeppo di frasi puerili e retorica ecologista, si aggiunge il suono della batteria, pessimo in tutto il disco, ma qui scaduto a tamburi che sembrano fusti del detersivo e piatti che paiono presi da una batteria giocattolo, suoni così brutti da risultare perfino fastidiosi, peccato perché, tutto sommato, il batterista dimostra buone capacità.
“Dichiarazione” è un tentativo di fusione di tempi e stili tra scanzonate giga, pop rock e ballad con ritorni sonori alla Pooh, comunque, nel suo complesso, una delle migliori cose del disco.
Per non tediare con una sorta di track by track penso sia meglio chiudere qui l’analisi del disco e provare a chiudere la recensione con alcune considerazioni generali.
Ho trovato soprattutto incoerente il pot-pourri musicale che la band propone con questo lavoro e le intrusioni di interi passi di musica classica con Respighi, Mozart, Bach, Dvorak non contribuiscono che a dare un’idea di forte disomogeneità, purtroppo non piacevole.
La voce è a tratti calante e più spesso crescente, comunque troppo frequentemente imprecisa, incostante e dondolante nell’emissione.
I suoni, volutamente vintage, potrebbero appassionare, ma la loro scarsa cura, soprattutto per la batteria, danno idea di lavoro approssimativo.
Difficile dare anche una conclusione alla recensione di un lavoro che reputo quasi per la totalità negativo. Penso sia davvero un peccato che musicisti con l’esperienza generata da una vita con gli strumenti in mano non siano riusciti a dare alle stampe un lavoro migliore. Forse puntare su un album strumentale avrebbe giovato, almeno parzialmente, perché se intravedo una certa incoscienza nell’assemblaggio e nello sviluppo musicale del disco, vedo chiaramente parecchia ingenuità nella scrittura dei testi. Un esempio su tutti è “Burokrat”, testo che trovo piuttosto imbarazzante, nel concetto, nella fraseologia, nella scelta delle singole parole e della loro esposizione metrica. Non sono neppure in grado di immaginare a chi consigliarlo. Mi spiace. Mi spiace soprattutto perché so quanto lavoro, quanto sudore, quanta rabbia, dolore e tempo ci siano dietro alla realizzazione di un disco e questo va sempre riconosciuto. Mi auguro che altri ascoltatori sappiano o riescano a cogliere un senso che io non ho rilevato e vedere e ascoltare oltre quello che il prodotto finale ha saputo dare a me.



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Roberto Vanali

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