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BLACKLANDS Peaceful shores Blacklands Music 2016 GER

La band tedesca in esame, formata nel 2006 dal batterista Thomas Kelleners e poi coadiuvato l’anno successivo dal tastierista Manfred Reinecke, è stata da sempre caratterizzata dai continui cambi di formazione. Trovato un equilibrio (precario…) per il debutto “A new dawn” (2012), altri avvicendamenti hanno poi condizionato in piena corsa anche l’impostazione dei nuovi brani da pubblicare. Entrato il nuovo bassista Oliver Müller e soprattutto la nuova cantante Tanja Magolei-Schüpper, occorrerà verificare nell’immediato futuro se la line-up abbia effettivamente raggiunto una sua stabilità.
Produzione cristallina per un lavoro che viene indicato come prog-metal/prog-rock, ma che nella realtà è (al solito) un album di heavy metal con voce femminile che oscilla anche nel power metal melodico, dove però – e questo bisogna riconoscerlo – la ritmica non è di certo “pestona” ma anzi ricerca l’agilità ed i cambi di metrica. Una certa attitudine “progressiva” nei musicisti coinvolti sembrerebbe dunque esserci, soprattutto se i pezzi stessi vengono spesso dilatati e riempiti con contaminazioni provenienti da altri generi musicali. Nonostante questo, la matrice di base resta inequivocabilmente di origine “metallica”, che non a caso ha già evocato parole di pura estasi da parte della critica addetta al settore. Per gli amanti del genere avrà di sicuro un bell’impatto l’iniziale “Still Bleeding”, dove la voce femminile duetta con il cantato growl di Marcel Römer, mentre la seguente “Alone Again”, con il suo refrain da canzone pop orecchiabile suonata al pianoforte, potrebbe diventare l’inno che intere schiere di single tardo-adolescenti (ma anche con qualche anno in più!) si ritroveranno a cantare in piedi, con la mano sul cuore. Detto che il testo suona bene ma se analizzato risulta decisamente ripetitivo, c’è da sottolineare che “Alone…” è costruita con sagacia, visto che ad ogni giro del ritornello si vanno ad aggiungere voci che creano un effetto sempre più corposo, coinvolgendo Gabriel Vealle ed il coro gospel “Family of Hope” (curioso, verso la fine, l’effetto della voce maschile in secondo piano, che sembra recitare a se stessa il proprio riscatto… in mezzo ad un tripudio di voci femminili!).
Per ribadire che i singoli brani contengono spesso degli accorgimenti studiati molto bene, vi è da citare “T.I.M.E.” (acronimo di Traveling Into My Eternity), forse la composizione maggiormente “prog”, tra controtempi, cambi di ritmo e partiture della Jazz Swing College Band arrangiate da Florian Raepke. Ma anche la conclusiva “Winter Skies”, brano di oltre sedici minuti con l’ospite Markus Brand alla voce, in cui si accavallano differenti stili e si conclude ottimamente con l’assolo del chitarrista Michael Stockschläger. Quest’ultimo sembra dare il meglio di sé negli assoli più duri e distorti; ne è una prova lampante “Drown In Darkness”, uno heavy rock molto ritmato che si evolve in una fase più meditativa, che a sua volta culmina con due assoli ben distinti: il primo più lirico e pulito, a cui ne segue un secondo decisamente più sporco e tosto. In “Distant Warning” c’è una parte strumentale travolgente, in cui i primi riferimenti potrebbero andare a Steve Vai, anche se poi si apre un botta e risposta “tecnologico” con le tastiere prima di tornare alla parte cantata. Da ascoltare anche i nove minuti di “Grand Circles”, dove sembra di sentire anche la rilettura sabbathiana in salsa psichedelica ad opera dei norvegesi Arabs in Aspic, in cui vi è un lungo e piacevole intervallo di quiete lisergica seguito da un duello chitarre-tastiere che dura troppo poco, prima di tornare con la voce della Magolei-Schüpper e quindi concludere con un altro assolo ruggente di Stockschläger, la cui velocità di esecuzione va ad aumentare in proporzione all’effetto di chiusura con cui viene fatto sfumare il brano. Il chitarrista è peraltro il produttore dell’album; forse gli si potrebbe imputare il fatto che le sonorità nel loro complesso risultano fin troppo nitide e che magari alcuni brani avrebbero necessitato di un suono decisamente più “roboante”, soprattutto alla batteria. Ma a quel punto, probabilmente, la natura delle composizioni sarebbe cambiata ancora una volta e molto probabilmente ci sarebbe voluto un uomo dietro il microfono.
Come detto più sopra, per chi ama le melodie nel metal, i Blacklands saranno una gioia da ascoltare e riascoltare per poterne cogliere le varie sfumature. I “dottori” del prog-rock, invece, li avranno già depennati per una questione di principio. Ed in effetti, il prodotto in questione non dovrebbe essere indirizzato al loro settore, anche se autolimitarsi nella tipologia di ascolti non è di certo un bel vivere. Nonostante i diretti incriminati facciano finta di non saperlo.



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Michele Merenda

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