Home
 
LA BOCCA DELLA VERITÀ Avenoth Fading Records 2016 ITA

Esordio symphonic-prog per la band romana, che prende il nome dalla famosissima effige posta proprio a Roma nella chiesa di Santa Maria in Cosmedin a partire dal 1632. Bocca della Verità che in epoca romana pare fosse… un tombino! Sì, perché nell’antichità queste effigi rappresentavano una divinità che letteralmente inghiottiva l’acqua piovana. Il nome con cui oggi il manufatto viene riconosciuto comparve nel 1485; il mascherone di pietra sarebbe stato spostato nel portico solo grazie ai restauri voluti da papa Urbano VIII Barberini, nel 1631. Terminata la parentesi storica, questo primo album si presenta come un concept fantascientifico, contenuto in una confezione digipack molto elegante e con un libretto ripiegato. Bei disegni ad opera di Luca Palombaro fanno da cornice alla trama, che vede il pianeta Terra proiettato nell’immancabile futuro disastroso, in cui non si può più tornare indietro e quindi si sfrutta la tecnologia molto avanzata per scoprire nuovi pianeti da colonizzare. Una storia – ideata da Andrea Palombaro – che a dire il vero ricorda un po’ il film “Interstellar” di Cristopher Nolan, anche se non vi sono assolutamente tutte le implicazioni inerenti ai paradossi fisico-temporali che hanno caratterizzato quella pellicola.
Produzione limpidissima, forse fin troppo “educata”, in cui suona comunque magnificamente il pianoforte; la chitarra si erge con toni lirici, mentre la batteria a volte risulta fin troppo “effettata”. L’intero album è una sorta di unica composizione che parte dall’anno 2161 e termina nel 2178, poi spezzettata ed articolata in varie tracce. “Intro 2161” – che raccoglie frammenti di Storia come il crollo delle Twin Towers o lo sbarco sulla Luna – e la seguente “Overture” consistono in un inizio oggettivamente buono; la soggettività, invece, comincia passando a “Contro luna e luce”, il cui cantato soddisferà sicuramente gli amanti di Marillion e neo-prog in genere, magari un po’ meno tutti quelli che tale (sotto)genere proprio non lo digeriscono. Ma questo non certo perché il cantante Fabrizio Marziani non abbia delle buone capacità (anzi, sembrerebbe dimostrare che anche in questo ambito ci possano essere vocalist sia potenti che espressivi). Il problema, casomai, sta nella coesistenza forzata delle fasi musicali con i testi scritti dallo stesso Marziani, che nel loro essere didascalico creano quel tipo di effetto che a chi non ama certe strutture proprio non va giù. “La suite dei tre pianeti” parla di un luogo disabitato, di un altro in cui vi sono esseri (ominidi?) che si rifugiano nelle grotte mentre delle strane macchine costruiscono avveniristici edifici suscitando paura e un altro ancora in cui i relativi abitanti non hanno nessuna intenzione di stabilire alcun contatto, mostrandosi subito ostili. Le parti strumentali risultano ancora una volta le migliori, mettendo in luce i due tastieristi Massimo Di Paola e Jimmy Bax (ruggente con l’organo Hammond!), oltre al chitarrista Roberto Bucci, che dà una forte e salutare sferzata all’intero contesto. Un procedere che ha dei punti di contatto evidenti col Banco del Mutuo Soccorso (è presente anche l’ospite Fabio Papotto ai fiati); non a caso, l’album è dedicato proprio a Francesco Di Giacomo e Rodolfo Maltese. E poi, trasfigurate, sperdute nello spazio, risuonano le elettroniche note dell’Inno alla Gioia… Si tratta del fortuito incontro con la sonda Voyager, lanciata nel 1977 e poi smarritasi nel cosmo più profondo, che nonostante si ritrovi allo stato di un rottame continua a far sentire la sua flebile voce.
Tutto questo sembra un lungo prologo alla storia vera e propria, che comincia con “Avenoth”, brano che parla della scoperta di un pianeta molto simile alla Terra, a partire dai suoi abitanti e dai loro costumi sociali, giocato su intrecci di voci, il basso molto articolato di Guglielmo Mariotti, le divagazioni di Fabrizio Marziani con la chitarra acustica e il bell’assolo di Bucci. Una zampogna apre la strumentale “La festa”, sorta di danza attorno al fuoco scandita dalle percussioni tribali di Ivan Marziani, la solita chitarra elettrica e il banjo dell’altro ospite Valerio Fisik. “Antico” è un intermezzo ad opera di Fabrizio Marziani alla chitarra classica, preludio a “La deportazione degli avenothiani”, dove i terrestri ricadono nelle loro paranoie aggressive e riducono in schiavitù chi li aveva ben accolti. Bucci ancora una volta sugli scudi e soprattutto gran lavoro al basso, stavolta ad opera di Gabriele Ferrari che suonerà fino alla fine dei restanti brani, oltre ai soliti Di Paola e Bax alle tastiere, che si lanciano in una esecuzione “bombastica”, e Ivan Marziani che dietro le pelli dà letteralmente il meglio di sé. Il lavoro del gruppo romano a questo punto è decollato in tutto e per tutto: “La rivolta – Il massacro dei terrestri” è ottimo prog, costantemente variegato e dal forte accento rock, a tratti quasi metal; una prima fase che alterna spunti di facile e gradevole ascolto (simili a quelli della prog-metal band tedesca Mind Odissey a degli intarsi acustici, a cui ne segue una seconda in cui assoli di sintetizzatori, Hammond e chitarra lasciano assolutamente appagati, con gli avenothiani che finalmente si uniscono, superano le divisioni e scacciano gli invasori. “Perduto Avenoth” è un’altra sorta di intermezzo dal fortissimo richiamo classico e romantico, basato sui due assoli chitarristici eseguiti prima da Fabrizio Marziani e poi da Roberto Bucci (di impostazione neoclassica il primo, rock il secondo. A proposito, alla batteria c’è Paolo Bax. Che sia un ritrovo familiare?!). Chiudono i dieci minuti di “Reprise (Speranze distorte)”, in cui si ritorna sulla Terra dopo aver lasciato un altro pianeta devastato, che però sembra sia riuscito a ricostruirsi grazie alla laboriosità dei propri abitanti, al contrario di quanto invece accade sulla Terra stessa. Un neo-prog stavolta ottimo, che piacerà anche a chi in genere storce il naso ascoltandolo, nonostante i richiami siano abbastanza evidenti. Anche il cantato, in un incedere più pacato, risulta meglio inserito.
Beh, alla fine si tratta sicuramente di un prodotto qualitativamente buono. I pezzi sono tutti abbastanza lunghi ma non annoiano e, come detto, presentano più d’uno spunto che potrebbe interessare anche chi al genere non è avvezzo. Tutti gli altri, lo avranno già fatto proprio.



Bookmark and Share

 

Michele Merenda

Italian
English