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BENT KNEE Say so Cuneiform Records 2016 USA

Ascoltare i Bent Knee è, in qualche modo, porsi a confronto con quello che molti vogliono identificare con il nuovo corso del progressive. Inutile sottilizzare se effettivamente questo nuovo corso esista o meno. Molti ritengono di sì e tanto basta per pensare che un qualcosa sotto la cenere ci sia. Un po’ ce la siamo voluta, pensando, ipotizzando, che uno dei principali indici per riconoscere il progressive potesse essere rappresentato dalla miscelazione dei generi musicali. Quel prendere a mani basse e reinterpretare, quell’impastare ingredienti più svariati e talvolta contrastanti tra loro e poi aggiungere ancora, “a filo” un po’ di jazz, un po’ di cameristica, un po’ di personalità estranea, fino a scoprire un amalgama tutta nuova e maledettamente intrigante.
Oggi è uguale o lo si vorrebbe uguale, ma gli ingredienti a portata di mano sono un po’ diversi da allora e la regola la si applica a indie rock, pop, trip hop, industrial, nu metal, alternative, math rock ecc. e, quando tutto questo diventa il metro compositivo, è il concetto stesso di novità che vorrebbe farsi riscrivere.
In questo frangente, probabilmente, poco importa del parere di un singolo recensore, quindi provo a proseguire dando per plausibile la teoria del nuovo corso, anche perché i Bent Knee, in questo, cadono a fagiolo.
Con questo “Say So” la band arriva al terzo album. Per dovere di cronaca, visto che non li conoscevo, sono andato a rispolverare il recente passato del combo bostoniano, per scoprire che il loro discorso ha avuto una notevole evoluzione e un assestamento maturo, preciso e dai connotati molto decisi, proprio con questo disco. Si tratta di un sestetto ben guidato dalla vocalist/tastierista Courtney Swain, personalissimo timbro del concept musicale dei Bent Knee. Sono infatti molto, molto presenti le partiture vocali, con testi lunghi e molto interessanti. Attenzione che sto parlando di una voce dotata di grande espressività e versatilità, una voce che sa muoversi e adattarsi a registri in continua mutazione, variabili, nell’arco di una manciata di secondi, dai più morbidi e melodiosi, ai più aggressivi e taglienti, ai più complessi e quasi contorti. Guai a pensare che sia da sola ad affrontare i brani. La band è un chiaro esempio di precisione, equilibrio e capacità tecniche magistrali, che vede, oltre al sestetto base, una miniorchestra di fiati e archi e un imponente coro che sorregge in due dei dieci brani dell’album.
Con questi presupposti immagino sia chiaro che un discernimento obiettivo e puntuale di questo lavoro sia possibile solo con una serie successiva di attenti ascolti, guai fermarsi e giudicare al primo approccio. La maggior parte dei brani contiene, infatti, momenti di difficile memorizzazione, linee vocali, melodiche e armoniche dalle intelaiature raffinate e intricate. Eppure l’ascolto generale e per quel che appare da un primo ascolto, sembra abbastanza diretto con un sapore pop piuttosto evidente.
E ora i brani. Passare dai 49 secondi di “Transition”, una sorta di arpeggio stile orientale, agli oltre nove minuti di “Eve” è fatto con grande facilità. E ogni momento è esempio della proposta e della filosofia musicale della band. Una varietà di temi impressionante che va da pesanti e graffianti momenti industrial a sbuffi space rock gonghiani, da intrichi zappiani a teatralità da musical, da parti improvvisate dove il caos math rock è sovrano a soffici trame minimali. Ma nell’avvio del lavoro, dopo un’introduttiva “Black water tar”, grande esercizio vocale, arrivano brani, come “Leak water” e “Counselor” che ci pongono davanti al quesito di quanto pane e Fripp abbia mangiato il chitarrista Ben Levin nella sua crescita musicale. Spesso, molto spesso saltano fuori fortissimi aspetti teatrali che per certi risvolti rimandano al già citato Zappa, “Commercial” ne è esempio splendido e dimostra che con fantasia ed ecclettismo si arriva a scrivere cose piacevolissime e inedite, senza dover mettere al fuoco la solita zuppa, dimostrando, al contrario, di quanta creatività e utile sfacciataggine si possa infilare in un arpeggio o in una linea di cantato. In questo è esemplare quella di “Hands up” che sa crescere fino ad un ritornello cantabilissimo e di un pop disarmante, che ci viene sbattuto in faccia quasi a dire: “Beccatevi pure questo!”
E poi ci si rende conto che effettivamente, tra le ossature costruttive, tra gli apparati melodici e le costruzioni ritmiche, appare quel qualcosa che riesci a definire “nuovo”. Suoni che hanno al loro interno passi che non hanno rimandi chiari e diretti, intendo dire che il corso, lo stile, l’idea e solo talvolta, le fattezze e le mire, potrebbero avere cose in comune con il passato e che questi Bent Knee gestiscono in maniera così personale e innovativa da farmi credere davvero che qualcosa sia in fase di ebollizione.
Alla fine degli ascolti devo ammettere che si tratta di un disco interessante, non bello in quel senso avvolgente e amabile che certi dischi progressive sanno essere. E’ un bello diverso, dettato da stimoli diversi e piuttosto inconsueti. Un bello che si prende più di testa che di cuore, che fa riflettere più che appassionarsi, che fa lavorare i neuroni più che le viscere. Non sto a dirvi se sia un bello più bello o meno bello, è solo un bello diverso, si ascolta bene e con piacere. E l’idea di non avere nessuna certezza se domani, tra una settima, tra un mese o se tra mezz’ora deciderò di riascoltarlo, comunque, mi piace.



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Roberto Vanali

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