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BIG HOGG Gargoyles Bad Elephant Music 2017 UK

Dopo il delizioso album d’esordio di questo giovane gruppo scozzese, era difficile ripetersi agli stessi livelli. Possiamo dire tuttavia che i nostri sono riusciti a farlo, riuscendo anche ad andare oltre, sfornando un album ancor meno ancorato a stilemi consolidati ed ampliando le proprie libertà compositive, riducendo peraltro le dosi di tastiere vintage nelle loro canzoni e riuscendo a spaziare al di là di un comunque predominante rock di stampo canterburyano che caratterizza di primo acchito la loro musica. I brani si sono mediamente accorciati rispetto al primo lavoro, presentandosi come un susseguirsi di quadretti graziosi che intrecciano di volta in volta i Caravan coi Beatles, Ayers coi Blood Sweat & Tears… o i Genesis coi Procol Harum.
I Big Hogg si presentano a questa loro seconda prova con poche variazioni: il cambio del bassista, in favore di Tom Davis, la rinuncia alle tastiere vintage di Stephen Mulhearn e la presenza in un paio di tracce di Lavinia Blackwall, dei folkers Trembling Bells, sono quelle più evidenti. Ancora importante è l’utilizzo di fiati (tromba, trombone, corno, flauto e sax) che dona un sapore particolare alle 13 composizioni dell’album, spesso vicino a BS&T o ai Chicago ma anche con digressioni zappiane o West Coast.
Esempio di ciò è già la prima traccia “Solitary Way”, in cui echi psichedelici ci portano sulle spiagge di San Francisco sul finire degli anni ’60, coi Beatles che occhieggiano da poco lontano. La successiva “Vegan Mother’s Day” è un breve bozzetto funky in cui si fanno sentire i fiati un po’ tronfi e buffi. In “Augogo” la voce di Lavinia ci guida lungo un brano jazzy delicatamente ritmato, con un piano elettrico e deliziosi cori.
Il breve, ma delizioso, intermezzo strumentale “Laudation” ci porta verso “Star of the Show” ci introduce dentro Canterbury, passando per la porta principale, quella ci vengono ad aprire i Soft Machine in persona, con un apparentemente confuso ed intricato finale. “Drunk on a Boat” ha umori notturni, di un delicato e ondeggiante blues, con la cullante voce solista di Sophie Sexon.
Un altro breve e bizzarro intermezzo, “Waiting for Luigi” (?), ci guida verso “The Beast”, traccia più lunga del lotto (6’25”), up-tempo e dai suoni brillanti ed energici, andatura un po’ folle ed altalenante, caratterizzata da digressioni chitarristiche non ancora udite nel corso di quest’album. “Gold and Silver” possiede invece la dote di una disarmante semplicità, una canzone un po’ alla Caravan, apparentemente lineare e simpatica nelle movenze.
Altro brevissimo intermezzo (“Mercy”, meno di mezzo minuto) e poi è la volta di “My Banana”, semplice anch’essa ma un po’ più anonima e lineare dell’episodio precedente. La voce di Sophie lascia ancora il testimone a quella di Lavinia per “Devil’s Egg”, piccolo e stralunato gioiello psichedelico che chiude l’album, non prima però dell’ultimo breve intermezzo di “Little Bear” per chitarra acustica, voce e flauto.
Un album maturo e piacevolissimo, ben realizzato e originale nella sua ricercata e consapevole retrodatazione a cavallo tra 60s e 70s, confezionato in una (ancora) splendida cover. Ancora un plauso per questi giovani ed intraprendenti scozzesi.



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Alberto Nucci

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