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BELEDO Seriously deep MoonJune Records 2021 URU/USA

Il chitarrista José Pedro Beledo, anche conosciuto nel settore di competenza come “L’Allan Holdsworth uruguayano”, sforna il suo sesto album solista, il secondo su MoonJune Records, dopo la relativa collaborazione cominciata con l’etichetta di Leonardo Pavkovic nel 2013 (conseguente al trasferimento del chitarrista presso la città di New York). Un inizio, quello di Josè Beledo, contraddistinto dallo studio del pianoforte in giovanissima età, per poi passare alla chitarra (e diventare in seguito un vero polistrumentista, suonando violino, fisarmonica e basso, anche quello fretless), militando quindi nei Días De Blues. Sarebbe poi stato l’ascolto di Chick Corea, Weather Report e Soft Machine ad indirizzare il nostro verso lidi jazz-fusion, con progetti anche al di fuori del Sudamerica, come scritto nella recensione del precedente lavoro. Ma non bisogna certo dimenticare l’attività musicale in patria e nella vicina Argentina (tra gli altri: Maytreya, Siddharta, Opa), esordendo quindi come solista nel 1985 con “Escape”. Poi, il già citato passaggio a New York, senza dimenticare l’attività nel prog-rock vero e proprio con i Circuline, su “Counterpint” (2016) e “Circulive::Majestik” (2018). Una carriera cominciata quindi nella seconda metà degli anni ’70, periodo a cui si ricollega – come vocazione – quest’ultimo lavoro. Era infatti il 1978 quando l’amico vibrafonista Jorge Camiuraga (con cui condivideva esperienze nell’ambito fusion) gli fece ascoltare “Silent feel”, album di Eberhard Weber’s Colours, in cui era contenuto un pezzo intitolato proprio “Seriously deep”. Una composizione che è rimasta impressa nella mente e nell’anima del musicista di Montevideo, oggi finalmente omaggiata con questa reinterpretazione che dà nome anche alla sua nuova fatica discografica. L’album vede Beledo accompagnato da una sezione ritmica formata da musicisti che definire turnisti o comprimari sarebbe fin troppo riduttivo, visto che si tratta di Tony Levin (basso) e Kenny Grohowski (batteria), impegnati negli anni con tantissimi nomi illustri: dai King Crimson a Peter Gabriel, il primo; da John Zorn ai rinnovati Brand X, il secondo. Ed esattamente nella title-track viene chiamato a suonare il proprio strumento l’amico Jorge, ricreando così il sogno di tanti anni prima. Un pezzo di quattordici minuti, in cui Beledo apre le danze mostrando la sua sensibilità artistica al pianoforte, passando subito dopo alle sovraincisioni delle sei corde. La sezione ritmica, pur facendo sentire la propria presenza, costituisce una sorta di ossatura del brano tanto salda quanto agile e discreta, atta a sottolineare determinati passaggi nelle partiture. Dopo circa cinque minuti comincia il turbinio di note della chitarra (pur rimanendo nella medesima atmosfera immaginifica, nello stile di quella suggerita in copertina), accompagnato dall’ottimo lavoro della batteria, a cui poi segue un break di basso, per dare inizialmente maggiore respiro. C’è ancora tempo per le indovinate note soliste del piano assolutamente jazz, sempre più intense, seguite da quelle ancora più ficcanti della chitarra, che si fondono in una gran bella abbinata. La successiva “Mama D” ha un attacco più vivace e “progressivizzato”, dedicata a Dorthy Masuka. Beledo ricorda con grande piacere nelle note di copertina il suo concerto alla Town Hall di New York assieme alla cantante sudafricana, tributandola grazie al contributo di Kearoma Rantao, vocalist del Botswana. Il complesso assolo tipicamente in “stile Holdsworth”, poi, è tutto da seguire e godere. A tal proposito, “Coasting Zone” vede il chitarrista davvero in grande spolvero, risultando il brano che sintetizza meglio la sua proposta in questo lavoro, ben coadiuvato dalla successiva “Maggie’s Sunrise”, in cui torna l’amico Jorge Camiuraga al vibrafono, qui decisamente più evidente. Otto minuti e mezzo dove il pianoforte, limpido, evidenzia un’atmosfera rilassata e sempre leggermente malinconica.
Ci sono due pezzi improvvisati in studio, vale a dire “Knocking Waves” e la conclusiva “Into The Spirals”. Il primo dura quasi dieci minuti e un po’ ricorda le sperimentazioni all’interno de La Casa Murada, proposte sempre dalla medesima label di Pavkovic, anche se decisamente più fruibile e con uno spessore maggiore; il secondo è una conclusione più scanzonata, in cui Beledo jamma sull’andamento della sezione ritmica, che procede decisa e positiva. Un episodio da cui si sarebbe potuto comunque ottenere di più. Nel mezzo alle due jam c’è “A Temple In The Valley”, con l’interpretazione vocale scat del nostrano Boris Salvoldelli. Beledo la definisce qualcosa che orbita nell’aria della scena di Canterbury, fatto sta che quasi undici minuti risultano forse eccessivi. Ma di certo, non c’è nulla da dire sull’ennesima prova chitarristica a metà brano, con relativi controtempi ritmici, tranne che dura troppo poco rispetto a tutto il resto.
Un’altra bella prova, questa del musicista uruguaiano, che rispetto a quella precedente forse si concentra meno sul virtuosismo e più sulla composizione di atmosfere. Il primo elemento comunque non manca, anche se in quantità minore, affinché venga ampliato l’aspetto poco prima enunciato; si tratta sicuramente di quel fattore che deve far mettere in conto una maggiore concentrazione da parte dell’ascoltatore per apprezzare bene quanto proposto. Ma di sicuro, si tratta di un altro prodotto di qualità.



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Michele Merenda

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