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ANDERS BUAAS The Edinburgh suite Apollon Records 2022 NOR

Anders Buaas è un polistrumentista nato nel 1974 a Larvik, nella contea norvegese di Telemark; le sue esperienze passate annoverano la militanza in diversi gruppi locali di rock “mainstream” e metal, ma soprattutto il ruolo, per lungo tempo, di chitarrista nelle band di Paul DiAnno (vocalist originale degli Iron Maiden) e di Tim Ripper Owens (ex frontmen dei Judas Priest), prima di intraprendere nel 2017 una carriera solista con il progetto “The Witches of Finnmark”, un’escursione strumentale in tre capitoli basata sulla persecuzione delle streghe nell’omonima contea della Lapponia nei secoli sedicesimo e diciassettesimo.
Questi trascorsi potrebbero facilmente farci inquadrare la proposta di Anders in un ambito di rock “duro”, ma nulla può essere più lontano dalla realtà, dato che negli anni a seguire, la scoperta di artisti come Mike Oldfield, Steve Howe o Al Di Meola lo ha portato a fondere influenze prog, folk, jazz e di musica da film al suo retroterra metallico, del quale onestamente restano solo la tecnica sopraffina, l’inclinazione occasionale verso qualche riff più energico e la capacità – all’occorrenza - di correre come un treno sulla tastiera del suo strumento: questo si verifica assai di rado, per cui chi dovesse essere allergico ai chitarristi virtuosi di tale estrazione può accostarsi all’album senza remore.
“The Edinburgh suite”, lavoro concepito appunto nella capitale scozzese e ad esso dedicato, segue di un solo anno il concept “Tarot” dedicato ai tarocchi, episodio insolitamente ma gradevolmente soft composto di brevi affreschi sonori e quasi riconducibile ai primissimi dischi di Jean-Pascal Boffo, per chi li conosce o ancora li ricorda. Il nuovo album – composto di due sole tracce sopra i 20 minuti ciascuna, un taglio perfetto per il vinile - introduce stili, timbri, ritmi più eterogenei, che lo rendono un’esperienza di ascolto appagante e mai noiosa, a tratti gioiosa ed esuberante. Anders suona chitarre, mandolino e banjo, lasciando stavolta le tastiere a Richard Garcia, il basso al session-man di lusso Tony Franklin, le percussioni e gli idiofoni a Christian M. Berg e la batteria al talentuoso e versatile Marco Minneman, altro ospite illustre.
“Aprite la vostra bottiglia preferita di ‘single malt’ e seguitemi in un viaggio sonoro attraverso la storia e le strade di Edimburgo”, suggerisce Anders, e così rispondiamo all’appello e ci troviamo subito nella città vecchia (“The Edinburgh Suite Pt. 1: Old Town”) per una passeggiata di 20 minuti; agli arpeggi di chitarra acustica si aggiungono gradualmente il basso, un piano, le percussioni e una chitarra elettrica a cesellare note preziose. Tutto ciò lascia presto il passo ad un banjo, una fisarmonica, una chitarra jazz ed una batteria in punta di piedi: ho già citato Mike Oldfield e sarà forse per il modo di giustapporre i temi musicali, per l’utilizzo di strumenti tradizionali in un contesto rock, per certe timbriche della chitarra elettrica o per le influenze celtiche che spesso facevano capolino anche tra i solchi del maestro di Reading (pensiamo anche ad episodi tardivi della sua carriera come “Voyager”), ma è proprio l’ingombrante presenza di Mike a palesarsi spesso e volentieri; ciò è da intendersi come spassionato complimento, poiché malgrado la formula delle suite strumentali sia stata applicata da molti, solo rarissimamente si è sfiorato il lirismo insito in capolavori come “Ommadawn” o “Hergest Ridge”. Questo non deve portarvi ad immaginare un tributo sfacciato come il recente progetto “Sanctuary” di Robert Reed o album più oscuri come quelli di Hertmut Zinn o Stephen Caudel: il lavoro di Buaas ha i piedi ben saldi nel 2022, la registrazione è cristallina, la batteria (splendide le esecuzioni di Minneman in un contesto prevalentemente pastorale) bene in evidenza e probabilmente nessun sintetizzatore analogico è stato maltrattato in sala d’incisione. La suite prosegue cambiando i connotati ogni tre o quattro minuti e allora apprezziamo la sezione sinfonica con l’organo a canne, cori austeri e campane tubolari (viene alla mente il Pär Lindh Project) altre sezioni jazz con il basso fretless di Franklin a brillare, pattern circolari e ripetitivi (omaggio a Tubular Bells?), schegge siderali di elettronica/kraut-rock, escursioni squisitamente gilmouriane, xilofoni impazziti che si uniscono a frenetiche gighe country & western e chi più ne ha più ne metta, in un gioco di contaminazioni che riesce a mantenersi mirabilmente coerente.
I giochi cambiano un po’ approdando alla città nuova (“The Edinburgh Suite Pt. 2: New Town”): l’incipit è stavolta prettamente prog-metal, forse a segnare il passaggio dal contesto medievale del Royal Mile all’urbanistica moderna di George Street, ma ecco di nuovo riproposto un honky-tonk in versione frenetica a mischiare le carte; una sezione trionfalistica con chitarre ad imitare le cornamuse ci conduce ad una parentesi riflessiva, tutto in chiave magnificamente oldfieldiana; gli arpeggi di chitarra classica dialogano con semplici ed ipnotiche melodie di vibrafono, mentre l’elettrica assume un suono pulito e squillante. Poteva mancare il vocoder? No, ma l’intervento è solo una breve introduzione ad una melodia cantabile dal sapore vagamente new-prog, che ribadisce la raffinatezza di Anders come compositore: le tastiere suonate con gusto da Garcia ed un finalmente scatenato Minneman portano il brano a vette di lirismo inaspettate; dopo tanta enfasi, la sezione successiva costituisce un po’ un “anti-climax” che permette però ad Anders di intessere trame chitarristiche sopraffine, conducendo l’ascoltatore fino in fondo all’album sulle note prolungate e “bluesy” del suo strumento d’elezione.
Una piacevolissima sorpresa che mi ha invogliato ad approfondire la produzione passata di Buaas, un album che potrebbe finire in una mia modesta lista dei più interessanti album dell’anno in corso; mi auguro che per l’autore possa costituire un punto di partenza verso riconoscimenti maggiori, magari anche grazie all’appoggio della dinamica e lungimirante label norvegese che garantirà al disco una buona reperibilità.



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Mauro Ranchicchio

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