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THE CARPET KNIGHTS Lost and so strange is my mind Transubstans Records 2005 SVE

Giunge finalmente all’esordio discografico questa band di Malmö formatasi sul finire dello scorso decennio, dopo anni di gavetta sotto forma di demo - il primo dei quali, “Powerfool”, pubblicato nel 1998 – ed inevitabili cambi di formazione.
La band odierna, capitanata dai due chitarristi Joakim Jönsson e Tobias Wulff, non contempla un tastierista di ruolo, e gli sporadici interventi di piano e Moog sono appannaggio dei due componenti già citati; in compenso, la tavolozza sonora è arricchita dai ricami flautistici del cantante Magnus Nilsson, che ad onor del vero usa lo strumento con estrema parsimonia.
Al primo ascolto colpisce la ruvidità dei suoni e della registrazione, tanto da spazzare via qualsiasi sospetto di aver di fronte l’ennesima band dai suoni melliflui e dalla produzione levigata; ciò può ovviamente essere visto come un difetto, ma in fin dei conti non fa altro che aggiungere autenticità ad un’opera evidentemente legata al modo di far musica di inizio seventies.
Considerata anche la virtuale assenza di tastiere, le influenze più evidenti sono i primissimi Jethro Tull (gli album precedenti alla svolta di "Aqualung"), privati però delle tentazioni folk e degli equilibrismi di Anderson, nonché tutta la schiera di band dimenticate del contemporaneo sottobosco proto-prog inglese che mescolavano elementi di psichedelica e rock-blues a strutture già più complesse (“All be the same”, con i suoi arabeschi di flauto o “No space to spare”). A tratti alcune affinità con i brani riflessivi degli Anekdoten tradiscono la provenienza scandinava, come in “The mist”, dal marcato feeling malinconico o negli arpeggi eterei ed il vibrafono di “Sad soul”.
Il timbro vocale di Magnus Nilsson è piuttosto ruvido e nasale, spesso caratterizzato da inflessioni blues, a volte un po’ monocorde ma adatto ad una proposta dai propositi quasi lo-fi. La doppia chitarra (dal timbro spesso… scheletrico) la fa da padrone, creando un suono asciutto e privo di orpelli, spigoloso ma scorrevole tanto da far accostare alcuni momenti (“Zonked” e “Feel it”) a sonorità giunge anni ’90 o perlomeno da rock mainstream.
Come spesso accade ascoltando opere del genere, verso la fine del disco la formula inizia a rivelarsi un po’ logora e si inizia a faticare per distinguere i singoli brani; per fortuna i nostri cavalieri del tappeto ci riservano il piatto forte a chiusura dell’album: nei dieci minuti di “Last of Many” finalmente ascoltiamo una chitarra crimsoniana fuori dalle righe ed un piano elettrico a saturare il suono come mai avviene in precedenza: può non bastare a far gridare al capolavoro, ma almeno ci lascia una sensazione positiva nelle orecchie.
In definitiva, se non disdegnate produzioni dal marcato sapore old-fashioned (e quest’opera rientra appieno nella categoria, ad iniziare dall’artwork in copertina, dall’aspetto un po’amatoriale), un album senz’altro interessante, pur con tutti i limiti evidenziati.

 

Mauro Ranchicchio

Collegamenti ad altre recensioni

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