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IL CASTELLO DELLE UOVA Appunti sonori per una cosmogonia caotica autoprod. 2005 ITA

Il prog italiano si è spesso barcamenato tra Forni, Banchi, Castelli, Locande e altri immaginifici luoghi dove portare le orecchie a ristorarsi. Un nuovo, ma neppure troppo, Castello è arrivato con un disco che ha avuto una gestazione lunga e difficile: pronto da quasi sette anni era lì, in attesa di … un’autoproduzione.
Ascoltiamo le trame di questo disco con calma e attenzione, anche perché non è solo la musica ad essere protagonista. Qui c’è la storia che accompagna. E la storia non è quella della solita canzone, non è il testo della “canzone” ma è la lirica, il testo decantato che, quando c’è, è sopra alla musica, è dentro la musica e ne fa parte come e più di un testo cantato, dando luogo ad un tutt’uno come in un gioco di bambini dove la filastrocca della “conta” è già gioco, perché quello è il solo momento in cui tutti si sta assieme.
Quando invece la narrazione non c’è, la musica stende il tappeto, affinché, con i tempi a lei assegnati, infine giunga. I tappeti sono fatti di un velluto morbido, tessuto con jazz e avanguardia, con fusion, richiami al grande prog italiano degli anni ’70 e momenti crimsoniani secondo certi dettami di Lizard.
Non è il primo esperimento di prog con testo recitato, ricordiamo ad esempio i bergamaschi Pholas Dactylus che lo fecero nel 1973 con il “Concerto Delle Menti”, ma qui non c’è la sospesa drammaticità degli eventi apocalittici, non c’è la minaccia che aleggia, non ci sono toni accesi o declamati in attesa di una degenerazione o di una utopistica rinascita, piuttosto troviamo un clima pacato di rilassata narrazione fantasiosa e fantastica. Troviamo schemi teatrali da cosmicomiche, equilibrismi lessicali e combinatori alla Raymond Queneau, citazioni di poemi (tipo Il 5 Maggio di Manzoni) rivoltate e rese a mo’ di virtuosismo verbale o di gioco di parole, evitando di norma il calembour fine a se stesso. Troviamo anche citazioni di grandi brani storici come “La Mela di Odessa” degli Area, giustamente riportata come “… ma questa è un’altra storia”, frasi bibliche e dei Vangeli, il tutto a spiegazione di come il mondo rischia di ritornare nel grande (o piccolo) buco da dove è nato, e quel misero uovo, che sarà pur possibile mangiarlo fatto in padella, all’occhio di bue, strapazzato o sodo, gratta gratta, è sempre lo stesso che fa nascere una vita, anzi è la stessa cellula tipo della nostra vita.
Un disco, quindi, essenzialmente divertente, dove il citato virtuosismo verbale si unisce ad un virtuosismo sonoro che altro non poteva essere che avanguardistico: qualsiasi altro genere musicale avrebbe finito o per cozzare con la parte lirica o per tramutare tutto in uno spettacolo più per bambini da Fantabosco, che da Castello progressivo. Gli sprazzi musicali che sono maggiormente orientati verso freeform jazzistiche necessitano di alcuni passaggi in più, mentre abbiamo momenti di groove lievemente funky che scorrono decisamente più accessibili, ma anche qui spesso ripeschiamo l’elemento intrusivo, l’accordo al limite della dissonanza, la frase che sposta l’accento ritmico o il flame che interrompe il flusso e devia verso altri lidi. In questo il testo è eloquente e porta l’ascoltatore tra una serie di continui bivi, crocicchi e scale ora in salita ora in discesa, pianerottoli di sosta dove fermarsi a respirare e parcheggiare l’orecchio tra un loop di basso e un solo di tromba straziata e circense.
L’ascolto è piacevolmente ricco, la narrazione si segue con interesse, ma è anche possibile soprassedere e pensare ai cavoli propri, ascoltando solo il risultato musicale complessivo. Insomma un disco sicuramente consigliato.

 

Roberto Vanali

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