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COMUS Out of the coma autoprod. 2012 UK

Al risveglio da un lungo stato di coma non è facile recuperare completamente l’autonomia e tutte le proprie facoltà e in questo senso il titolo di questo album mi sembra molto azzeccato. “First Utterance”, perla folk psichedelica intrisa di fascino pagano, esordio dei Comus risalente al 1971, è considerato a tutti gli effetti un classico del panorama britannico di quegli anni. Un album che continua a scuotere gli animi degli ascoltatori grazie alle sue soluzioni insolite, alle sue tenebrose trame acustiche, alle sue atmosfere brutali e stregate, e non credo di dover aggiungere molto altro perché mi rivolgo sostanzialmente a gente che ha ben presente ciò di cui parlo (spero). Tutti ricorderete anche il successivo “To Keep from Crying”, anno 1974, decisamente inferiore rispetto al debutto ma comunque interessante per certi aspetti.
Da allora la band aveva fatto perdere completamente le sue tracce ed inizia quindi il lungo periodo di coma, finché nel 2005, per celebrare la doppia ristampa contenente entrambi gli album, i Comus cominciano a ridestarsi e tornano sul palco. Da qui in poi si sviluppa un progressivo ritorno di fiamma fra gli appassionati fra i quali troviamo anche Mikael Åkerfeldt degli Opeth e Stefan Dimle della Mellotronen grazie ai quali i Comus partecipano nel 2008 al Mellow Boat festival, evento musicale legato all’ormai storica etichetta svedese che ha luogo su una nave da crociera e che viene immortalato anche da un bel DVD. Da qui in poi i Comus ricominciano a suonare, con una line-up che ricalca quasi perfettamente quella degli esordi e che vede come sempre Roger Wooton in prima fila, alla voce e alla chitarra. L’unico elemento nuovo in effetti è Jon Seagrott alle percussioni e agli strumenti a fiato che sostituisce in pratica Rob Young.
Nelle intenzioni di Wooton lo scopo è quello di creare un ponte con “First Utterance” con il quale innegabilmente c’è una certa continuità. Le nuove composizioni, tre in tutto, per un totale di circa 23 minuti, rievocano molte delle atmosfere di quell’album, grazie soprattutto ad una struttura incentrata sui riff delle chitarre acustiche (quelle di Wooton e di Glenn Goring), suonate in maniera violenta secondo lo stile del gruppo, e al violino di Colin Pearson che sembra non aver perso il suo fascino stregato. Dobbiamo dire che in sé gli spartiti delle nuove composizioni appaiono decisamente interessanti, specie quando le parti strumentali prendono il sopravvento e soprattutto quando i ritmi si fanno più concitati, come nella traccia di apertura, che è poi la title track. Poi ci sono le dolenti note, rappresentate soprattutto dalla voce di Wooton che si è sempre contraddistinta per il suo stile decisamente poco ortodosso ma che appare però assolutamente fuori forma. Ricordiamo il cantante agli esordi giocare con timbriche acide e stridenti, cambiare spesso di registro, mugolare, urlare, lamentarsi, insistere con crudeltà su certe timbriche ma tutto questo ormai, e lo dico con grande dispiacere, non gli riesce più, se non con un effetto tristemente grottesco. La sua voce è sempre abbastanza particolare, è vero, ma il modo in cui imita sé stesso è per me quasi straziante. Se la cava decisamente meglio Bobbie Watson con la sua voce un po’ da strega e un po’ da ninfa dei boschi che si rende protagonista soprattutto nella leggiadra ballad “The Return”. I suoi controcanti continuano ad essere molto efficaci, sia nella già citata title track, in cui alterna la sua voce acutissima ai sospiri, sia nella successiva “The Sacrifice”, dominata da eteree linee di flauto e da atmosfere intrise di psichedelia.
Accanto a queste tre tracce nuove è stata collocata a completare l’album una suite inedita, “The Malgaard Suite”, della durata di oltre 15 minuti, preceduta da un lungo monologo che è stato collocato per fortuna su una traccia audio separata, in maniera tale che possa essere saltato senza troppi patemi. La suite, rimasta sepolta per così tanto tempo, fa parte di un ipotetico seguito di “First Utterance” mai portato a compimento. La registrazione della suite è verosimilmente l’unica esistente ed è stata catturata dal vivo. Purtroppo la qualità audio è così scadente che neanche le parole si riescono a percepire sempre in maniera distinta. Nel corposo booklet allegato al CD viene riportata infatti una trascrizione frammentaria delle liriche e si fa appello agli ascoltatori che, semmai riuscissero a decodificare qualche elemento mancante, sono invitati a comunicarlo al gruppo. Lo stato disastroso del nastro non impedisce alla nostra immaginazione di ricostruire mentalmente quali sarebbero potute essere le sembianze di un ipotetico album completo, concepito come un sequel del fortunato esordio ma arricchito da tanti spunti orchestrali. In questo senso fanno molta impressione le parti di fagotto ed il violino irrequieto. Purtroppo però si tratta solo di ombre, di idee, di brandelli di qualcosa che sfortunatamente non esiste se non in questa forma quasi irriconoscibile. Va da sé che l’ascolto della suite è davvero molto poco agevole ed il suo interesse è prettamente documentale e riservato quindi a completisti e fans.
Ci sono album che vivono di luce riflessa e questo è uno di quelli: senza il potente ricordo dell’esordio sarebbe molto più difficile capirne il significato ed apprezzarlo. Immaginate di dover far ascoltare un album simile a una persona che non conosca affatto i Comus: come percepirebbe i suoni che escono da questo disco? Se avete amato alla follia questa band, potete acquistare questo prodotto molto ben confezionato che però, per le sue caratteristiche, rimane riservato essenzialmente ai fans. Niente di nuovo sotto al sole, neanche per chi è uscito dal coma.


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Jessica Attene

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