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CELL15 River utopia autoprod. 2018 USA

I Cell15 sono la creatura di Robert Scott Richardson, apprezzato session man, appassionato però da sempre di Prog classico e che nel 2011 decide di formare un proprio progetto proprio per suonare questa musica. Avvantaggiato dal fatto di possedere un suo studio di registrazione, il suo primo album “Chapter One”, in cui Robert suona tutti gli strumenti, prende forma nel 2014. Per questo secondo capitolo vengono invece imbarcati altri musicisti per formare un vero e proprio gruppo. Tra questi si segnalano il bassista Dan McDonald, proveniente dagli Elephants Of Scotland, e il tastierista Andrew Colyer dei Circuline. Robert tiene per sé uno spot di tastierista aggiuntivo e quello di vocalist.
Le passioni di Robert, nonché fari di riferimento, si chiamano Pink Floyd, King Crimson, Yes, Genesis e Gentle Giant, tuttavia, iniziando ad ascoltare quest’album vengono più che altro alla mente Neal Morse, Kansas (assieme ai quali ha suonato con la sua vecchia band AOR Hybrid Ice) ed Alan Parson. La traccia d’apertura dell’album “Street Lights” è comunque brillante e colpisce come un pugno allo stomaco, assalendo l’ascoltatore con una cascata di tastiere che ci fanno presagire quanto meno una cinquantina di minuti di divertimento. La successiva “Castle Walls” non è molto da meno, proseguendo sulla line tracciata, anche se sembra venir data del Prog un’interpretazione senz’altro annacquata e di facile assimilazione che qualche mugugno se lo comincia sicuramente ad attirare. L’impalcatura comincia a scricchiolare con la successiva “The Junket”, classica canzone melodica da accendino, reminiscente sicuramente del passato AOR di Robert ma che stona un po’ in questo contesto e, soprattutto, con gli intenti dichiarati per questo progetto. Ben fatta di sicuro, intendiamoci, ben suonata e tutto quanto, ma ci ritroviamo ad aspettarne la fine con impazienza.
La successiva “Revolution of Soul” riguadagna terreno solo in minima parte, caratterizzata da una ritmica moderatamente intricata che si abbina ad una chitarra nervosa ed il solito cantato decisamente ammiccante. “Looking Glass” invece vira decisamente sul versante hard, con voce distorta e dai sapori un po’ acidi; l’improvviso break centrale con flauto e divagazioni strumentali gli fa comunque acquistare un po’ di punti, devo ammettere.
Siamo alla traccia finale, rappresentata dalla title-track, per quasi 11 minuti di durata. Ci dovremmo dunque aspettare il pezzo forte dell’album? Un lungo intro strumentale, con belle armonie di tastiere, assoli di chitarra e ritmiche complesse ci introducono alla parte cantata centrale, dalle caratteristiche molto floydiane, che cede poi il passo ad una nuova fase strumentale. Il finale è poi in crescendo emotivo ed il brano alla fin fine rappresenta un buon pezzo di tipico Prog sinfonico dalle tonalità epiche.
L’album nel suo complesso è piuttosto piacione e cerca appunto di muovere le leve giuste per colpire l’attenzione di un pubblico non troppo smaliziato e poco propenso alle sperimentazioni o a sonorità poco abituali. Ciononostante non me la sento di puntare troppo il dito e vi lascio affermando che “River Utopia” ha una sua più che decente dignità, è sicuramente ben suonato e non rappresenta di certo qualcosa da bypassare a priori.



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Alberto Nucci

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