Home
 
LEO CARNICELLA Super Sargasso sea autoprod. 2022 GER

Dopo l’EP “Until a new dawn” del 2022, il tastierista/cantante venezuelano di evidenti origini italiane (ma residente in Germania) sforna il suo primo full-length, avvalendosi anche di ragguardevoli ospiti. Il suo è un prog-rock abbastanza leggero, che sconfina nei territori del pomp-AOR, affrontando tematiche inerenti le capacità psichiche. Nel libretto interno vengono citate le parole di personaggi come Rick Strassman e Nestor Berlanda, insistendo poi su quanto elaborato dal primo nome citato riguardo la cosiddetta DMT. Sintetizzata per la prima volta nel 1931 da Richard Manske, si tratta di una triptammina psichedelica, presente sia in molte piante (mimose, acacie, graminacee, funghi vari) che nel fluido cerebrospinale degli esseri umani. Proprio secondo Strassman, la ghiandola pineale sarebbe in grado di produrre blande quantità di DMT, specialmente tra le tre e le quattro del mattino, momento favorevole per la fase REM dei sogni. E quindi, tornando a Berlanda, questa molecola ci porta in “regioni” enigmatiche del nostro inconscio. Le due suite poste in apertura e chiusura di questo lavoro vertono proprio su tali concetti.
Accompagnato da un mostro sacro come Tony Franklin al basso e dal batterista Jan-Vincent Velazco, oggi nei Pendragon, Leo apre le scene con “The Place Where Lost Things Go”, assieme agli altri ospiti Thomas Krampl alle chitarre e Alexis Peña alla voce (presente solo su questa traccia). Suite di nove minuti e mezzo divisa in tre parti, viene introdotta con dei suoni ambient per nulla rassicuranti; poi entrano pianoforte e basso a dare una connotazione più serena, in attesa della batteria e delle sei corde. Si dà quindi vita a qualcosa di abbastanza strano, nella sua elettrica pacatezza: la parte cantata sembrerebbe una specie di “Simpathy for the Devil” (Rolling Stones) trasfigurata da vaghe connotazioni latine, proseguendo poi con tracce dei Kansas. Tutto questo è comunque eseguito con una certa discrezione, ricavandone un risultato tutto sommato originale, grazie soprattutto al lavoro della sezione ritmica. Ci sono poi da menzionare i tredici minuti della suite conclusiva “The Place Where Lost Minds Go”, dove l’ospite è stavolta un certo Martin Barre, storico chitarrista dei Jethro Tull. L’inizio mette in scena un paziente che respira pesantemente, mentre un terapeuta – il dr. Strassman in persona – gli dice di non aver timore di assumere l’allucinogeno; un effetto che ricorda l’inizio di “Scenes from a memory” dei Dream Theater. Vi sono dei momenti volutamente disturbanti, pur non sfociando nella cacofonia. I rimandi potrebbero guardare forse ai Gentle Giant, ma soprattutto le parti cantate sono davvero troppo mosce. La situazione non cambia anche quando si vorrebbe cantare in modo “aulico”, anzi. Di buona fattura i minuti finali, lasciati al commento strumentale. Poi, vi è una ghost-track; un lungo riposo mentale che sarebbe potuto andare bene se fosse durato pochi minuti. Ne dura invece quasi nove e sono decisamente eccessivi, a meno che non si voglia far riposare l’ascoltatore dopo tutto quanto sentito. Certo, ad un determinato punto echeggia un inaspettato “Holaaaa…”, come se qualcuno salutasse da un altro mondo, e con altre voci distorte, sparse qua e là, sembra che si voglia far cenno all’approdo verso una Realtà celeste che sta oltre le barriere umane.
Ma tra questi due brani lunghi… cosa ci sta? Quattro composizioni, tre cantate e uno strumentale; nelle prime tre, si registra la presenza di Beledo, chitarrista uruguayano che ha dato alle stampe degli eccellenti album strumentali di jazz-rock/fusion. Qui, però, l’approccio stilistico – lo si ribadisce – guarda al pomp-AOR e quindi il chitarrista sudamericano non sembra affatto in condizione di poter fare la differenza. Con l’aggravante che dietro al microfono non c’è uno Steve Perry che – piacciano o non piacciano – ha impreziosito il lungo periodo patinato e maggiormente di successo dei Journey (per chi non apprezza quello stile, si consigliano invece i primi tre album della stessa band). Insomma, “Conundrum” può essere segnalata per le sue linee di basso, mentre “Tell Your Mom I’m not Coming Home” vorrebbe essere una classica ballatona, con apposite sfumature di voce e pianoforte, ma a salvarsi sono in minima parte le seconde. Sul primo elemento, sarebbe meglio lasciar fare a un professionista che si dedichi essenzialmente a questo. “Balance” è un po’ più strutturata e Beledo effettua pure degli interventi acustici interessanti, anche se – nonostante gli inserimenti solisti di Carnicella – quello da seguire è il lavoro di Velazco alla batteria. Occorreva invece ampliare la strumentale “Oblivion”, impreziosita da Thomas Krampl alla chitarra acustica. Due minuti e mezzo di riflessione, da strutturare meglio.
Molto bella la copertina, che cambia a seconda dell’inclinazione. I contenuti musicali non sono eccezionali, pur mettendo in evidenza alcune idee da poter sviluppare nell’immediato futuro, affidando le relative esecuzioni a chi di competenza. La sezione ritmica, come si è ampiamento scritto, costituisce già un ottimo punto di partenza.



Bookmark and Share

 

Michele Merenda

Italian
English