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DAYS BEFORE TOMORROW The sky is falling 2009 USA autoprod.

Quelle poche volte che rifletto sul mondo del rock progressive, uno dei miei pensieri più ricorrenti è rivolto a come dovrebbe essere un disco prog per essere apprezzato dalla “gente comune che ascolta musica per diletto” oltre la cerchia di appassionati. Penso a belle melodie, una buona dose di tecnica, un’immagine curata per attirare il gentil sesso, due o tre pezzi da poter esser passati in radio, un cantante intonato che stia stare bene sul palco, qualche schitarrata per attirare i ragazzini metallari (che, volenti o nolenti, sono ancora tra i pochi che acquistano dischi), atmosfere retrò buttate un po’ per tutti i brani in modo da attirare la vecchia guardia (che storcerà in ogni caso la bocca ma almeno, anche se male, ne parlerà e farà girare comunque il nome nell’ambiente). Dopo essermi fatto il mio bel film mentale, ripensando a tutti questi elementi capisco che una cosa del genere, così costruita, oggi non sarebbe proponibile e morirebbe in partenza. Quando ormai mi ero messo l’anima in pace e stavo anche io mettendomi in fila per comprare i biglietti dell’ennesima tribute band, metto nell’autoradio (e già…) il cd di questa band americana…no..non è la nuova sensazione che cambierà il mondo del prog, non riprende sonorità anni 70, non ci sono Mellotron, Hammond o flauti, non ci sono assoli alla Petrucci né passaggi progmetal di nuova generazione, non c’è jazz o avanguardia musicale nelle loro composizioni..allora perché ne parlo su Arlequins? Perché se oggi (e sottolineo oggi) dovessi avvicinare a questo mondo qualche amico che fino a ieri ascoltava al massimo i Toto (se li beccava alla radio) senza passare per i classici, la prima cosa che mi verrebbe in mente sarebbe questo “The sky is falling” dei Days before Tomorrow.
Mentre lo ascoltavo in mezzo al traffico, pensavo che questo disco ha tutti gli elementi che cito nei miei film mentali… ne mancava uno… e al primo semaforo guardando nel booklet le loro facce da universitari americani mi accorgo di aver fatto bingo. Non sono ultra cinquantenni! E così anche l’aspetto immagine è salvo.
Logicamente anche questo film mentale non ha lieto fine, perché quando vado a cercare il nome e il logo della coraggiosa etichetta che ha creduto in questi cinque ragazzi mi accorgo che sono davanti ad una (l’ennesima) cosa fatta in casa.
Uscita curatissima in digipack, prodotta da Ron Nevison (Led Zeppelin, The Who, Jefferson Starship, Europe, Kiss, Damn Yenkies) ma sempre indipendente, segno che i Days Before tomorrow ci rimetteranno tanti ma tanti soldi.
Comunque, visto che su Arlequins si parla di musica e non di strategie di marketing, cerchiamo di analizzare che sonorità ha questo gruppo.
La prima cosa da puntualizzare è che i DBT sono statunitensi e suonano da statunitensi, quindi non troverete nessuna capoccia di volpe, nessun arzigogolio al clavicembalo o nessun pezzo in loop da 25 minuti. I DBT sono l’evoluzione verso atmosfere progressive di quello che era l’AOR metà anni 80. E come se un gruppo alla Winger (un nome a caso... tanto suonavano tutti –bene-nella stessa maniera) si fosse convertito sulla via di Damasco ai Rush (gli ultimi) e agli Yes, ci avesse unito un po’ di Kansas, di Styx e di Dream Theater, conservando comunque le basi di partenza del proprio suono.
Questa miscela che assomiglia a tutto e a niente nello stesso momento oggi (e sottolineo oggi) è ancora terreno abbastanza brullo.
Per chi poi, come me, era un estimatore del rock americano di un certo tipo, difficilmente non si entusiasmerà di fronte ad una “lighters”. Chi è legato a doppio filo agli anni 80 difficilmente non sorriderà davanti alle atmosfere alla “Alive & kicking” di “Wrong” (con un coretto che fa molto MTV). Chi ama le atmosfere più tecniche difficilmente rimarrà deluso dalle due parti di “Wasted Years”. Chi ama determinati tipi di voci pulite e potenti nello stesso tempo difficilmente troverà qualcosa da dire nella grandissima prova di Erik Klein.
Difficilmente oggi ci si trova di fronte ad un disco in cui, anche cercando il pelo nell’uovo, fai difficoltà a trovare qualcosa da buttare. Peccato che un lavoro del genere oggi non abbia mercato nemmeno nella nicchia e il fatto che nessuna major (perché questo è un disco da major) abbia voluto puntarci, dice tutto sulla situazione dell’ascoltatore tipo del rock (tutto il rock) del 2000.
Grazie ad internet (e non parlo di muli o blog) è possibile reperire questo gioiellino anche abbastanza facilmente, se lo farete, avrete la soddisfazione di poter fare ascoltare un disco ai vostri amici senza fargli storcere la bocca, quando vengono in macchina con voi, e la consapevolezza di aver supportato un gruppo superiore alla media.
Promosso a pieni voti.


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Antonio Piacentini

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