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DAYMOON All tomorrows autoprod. 2011 POR

Mettendo clamorosamente le mani avanti, i Daymoon, sul loro sito, si autodefiniscono un “regressive music act”, e si premurano di spiegare la propria storia e filosofia, fatta essenzialmente di ironia e di un numero imprecisato di lavori iniziati e mai finiti. Il cervello della band, nonché colui che ha in qualche modo portato avanti il nome per circa un trentennio, è Fred Lessing, musicista di esperienza che canta, suona chitarre, fiati, tastiere e percussioni etniche. Il gruppo è completato da Luís Estorninho (basso), Adriano Pereira (clarinetto, flauto, tastiere, sax, voce), Paulo Catroga (tastiere, voce) e Fernando Guiomar (chitarre), oltre che da una nutrita pletora di ospiti, incluso il produttore dell’album Andy Tillison.
Coloro che, ingolositi dal termine usato dalla band, si aspettassero una musica fatta di Genesis, folletti, Yes e compagnia bella, rimarrebbero parzialmente delusi; la musica dei Daymoon ha sì connotati piuttosto datati, ma è addirittura da vedere se tutto quanto viene proposto in quest’album può essere etichettato come Progressive, in senso classico e universalmente riconosciuto. E’ anche vero che in questi 65 minuti di musica c’è un po’ di tutto, dalla musica psichedelica a quella mediorientale fino al drum’n’bass… dai Beatles ai Genesis (sì, dai… un po’ ce n’è…) ai Pink Floyd e al Canterbury. Sebbene non si possa spesso fare a meno di ammirare il coraggio del gruppo e la sua versatilità, l’album soffre inevitabilmente di discontinuità, oltre che per un cantato decisamente da rivedere, quasi costantemente su tonalità e volumi bassi, certe volte quasi inudibile (e talvolta è quasi un bene). La produzione tuttavia è sufficiente (i suoni sono un po’ appannati, se lo vogliamo dire), così come l’esecuzione dei musicisti, gli arrangiamenti e la resa finale.
Dopo un avvio quasi scoppiettante, con la title-track ed il successivo breve strumentale che fa immaginare chissà quali scenari Prog-sinfonici, il disco si posiziona sempre di più su ritmiche abbastanza monotone, con pochi scossoni che arrivino a scuotere l’ascoltatore. Se sono gradevoli certi impasti sonori, con flauto e altri fiati in bella evidenza, è purtroppo vero che alcune composizioni, come la lunga “Sorry”, la successiva “Bell jar” (tristemente caratterizzata da ritmiche unz… unz…) o la floydiana “News from the outside” sono difficili da seguire fino in fondo. A chiudere l’album in modo positivo arrivano tuttavia gli oltre 13 minuti di “The sum”, un brano in bilico tra un buon Prog sinfonico e tentazioni RIO che quanto meno è abbastanza divertente e ci riconcilia l’animo.
A conti fatti quest’album non è da buttar via, ma la valutazione sul gruppo è sicuramente da rivedere; capisco la voglia di riversare in un’ora di musica tutto l’entusiasmo di 30 anni al servizio della propria passione musicale, ma una maggior presa di coscienza dei propri mezzi e degli obiettivi cui si vorrebbe mirare sarebbe stata auspicabile. Il nuovo album è annunciato a brevissima scadenza; un miglioramento è decisamente alla portata del gruppo portoghese.



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Alberto Nucci

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