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DESERT WIZARDS Beyond the gates of the cosmic kingdom Black Widow Records 2017 ITA

Dopo quattro anni dall’ultima uscita, la band di Ravenna arriva al momento delicato del terzo album. Ispirazione sabbathiana sempre presente, magari meno interpretata in chiave stoner e più intrisa di velenosa psichedelia che guarda verso deliri cosmici, trovando il suo emblema nella coloratissima copertina ad opera di Perla Baldini. Un astronauta perso nel fitto groviglio di serpenti e funghi allucinogeni, tra pianeti giganti usciti dalle orbite, con la Terra e la propria astronave lontane dall’allucinato buco nero in cui il malcapitato si è imbattuto. È un’atmosfera complessiva senza dubbio opprimente, come se ci si fosse persi e poi ridestati dove mai si sarebbe potuto pensare. Sono le medesime sensazioni avvertite nell’iniziale “Astral Master”, in cui la musica psichedelica cantata da Anna Fabbri si mischia nella mistura composta da dark-prog e hard rock. Il finale è lasciato alla chitarra ruvida di Marco Goti, che si mischia con l’organo della stessa Fabbri. L’impostazione dei primi brani è molto simile, per via dell'andamento generale che termina sempre con una coda strumentale. Accade la medesima situazione in “Dog Star” (Sirio, l’alfa della costellazione del Cane maggiore), che parte come una specie di ballata e poi si sviluppa più dura, col tema dei contatti telepatici verso questa stella-entità durante la notte, finendo con un assolo che ricorda – facendo le debite proporzioni, sia chiaro! – quello ben più famoso di “Highway Star” di Blackmoriana memoria. “Born Loser”, cantata dal bassista Marco Mambelli, è decisamente in stile garage, passando poi per i dieci minuti (eccessivi) di “Red Sun”. Un andamento ipnotico, galleggiante ma non certo leggero, che già qualcuno ha accostato ai Doors (sicuramente quelli più “stonati”), concludendo sempre con un’aggressiva parte lasciata alla chitarra. Qualcosa sta cambiando nella struttura dell’album e “The Man Who Rode That Time” – da cui è stato ricavato il relativo video – parla di un viaggio tra spazio e futuro, verso l’anno 2089, quieto e intenso allo stesso tempo, contrassegnato (ancora...) dalla conclusione in cui prima si mettono in mostra i sintetizzatori di Mambelli e poi i bei vocalizzi energici, liberatori dell’ospite Suzanne Omgba Atangana su una base nostalgica di pianoforte. Di nuovo synth e pianoforte su “Distant Memories”, con un basso molto presente e voci volutamente non bene allineate, prima di aumentare nuovamente la velocità. Bella “Snakes” (eccoli, i serpenti!), che però sul libretto viene intitolata “The Snake” e forse questo è il titolo corretto; si parte con il vecchio andamento stoner e poi ci si liquefà nella lisergia, con le similitudini tra il serpente e l’uomo, perso fra il vorticare delle speranze e la muta della pelle, tra ritmi che oltre ai Black Sabbath e forse ai vecchi Pentagram si rifanno anche ad un Hendrix terribilmente trasfigurato. Chiude “A Light In The Fog”, in cui una creatura notturna canta la malinconia di dover lasciare chi ama perché sta per sorgere il sole tra le nebbie. Nonostante la tematica, con il sax dell’altro ospite Alberto Pompignoli e la batteria qui più spedita di Silvio Della Valle, questo sembra il pezzo che denota una luce maggiormente positiva e liberatoria.
Conclusione: il precedente “Raven” – pur avendo le sue contraddizioni – denotava un impatto decisamente diverso e si faceva apprezzare meglio, soprattutto nell’immediato. Qui si torna indietro nel tempo, molto indietro, tra la fine degli anni ’60 – in cui primeggiavano i Pink Floyd dell’era Barrett – e i primi attimi dei seventies, in cui ancora risuonavano sbiaditi gli echi del decennio precedente, mescolandosi con le bombe degli anni a venire. Anche e soprattutto per questo l’ascolto non è poi così semplice ed il responso non risulta immediato, sia nel bene che nel male. Un motivo in più per sentirlo più volte. Fa comunque piacere che i quattro romagnoli siano tornati almeno per il momento su questo pianeta e soprattutto in questa epoca.



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Michele Merenda

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