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DELUGE GRANDER Oceanarium Emkog Records 2017 USA

Questo è il secondo album di una annunciata eptalogia su 3 livelli il cui senso logico ci è ancora piuttosto oscuro ma che accettiamo in quanto tale, in attesa delle cadenziate pubblicazioni che l’andranno a comporre (la prossima si intitolerà “Lunarians”, a quanto si sa). Il mastermind del progetto è Dan Britton, come sappiamo, tastierista e chitarrista (oltre che titolare di “altri strumenti” non meglio specificati, tra cui sitar, banjo e ukulele), accompagnato in questa nuova release dai soliti compagni d’avventura Brett d’Anon (basso) e Patrick Gaffney (batteria), mentre il chitarrista Dave Berggren si è un po’ defilato e compare su una sola traccia, e da un numero di ospiti che offrono il loro comunque limitato contributo ai fiati e agli archi.
“Oceanarium” si presenta come un’imponente opera strumentale di poco meno di 80 minuti, quasi il doppio dell’album precedente, composto da 8 tracce di varia durata (dai 3 ai 15 minuti). L’ascolto completo risulta inesorabilmente un po’ pesante, stante anche l’assenza di parti vocali, quindi il suggerimento è di mettersi comodi e di dedicargli attenzione, non accontentandosi di usare quest’album come sottofondo per altre attività. Solo così si potrà essere in grado di districarsi nelle mille volute e giravolte sonore di questo che, a grandi linee potrà essere anche definito un album di Prog sinfonico ma che raramente presenta ampie atmosfere o melodie che ci possiamo godere senza prestare eccessiva attenzione.
La musica presenta connotati eclettici, spesso cinematici, è intricata e complessa ma non si può realmente parlare di avant-Prog. Di certo le 8 tracce sono così dense di musica e di sfumature che, come si diceva, è davvero un problema raccapezzarcisi, dovendosi trovare ad affrontare di volta in volta l’ascolto di riff ripetitivi che vengono improvvisamente spezzati per diventare qualcosa di totalmente differente e divagare poi nelle liquidità oceaniche di questa musica alla ricerca di un qualsiasi approdo sicuro che ci faccia tirare il fiato… ma senza successo, così da rischiare di rimanere sempre senza respiro ed annegare nelle immensità sonore, mentre i polmoni ed il cervello anelano l’ossigeno di una qualsiasi melodia cui potersi aggrappare, come un’improvvisata e ben accetta zattera.
Una descrizione una per una delle tracce pare davvero un’impresa al di là delle umane possibilità, dato che saremmo costretti a descrivere il mutare della musica quasi secondo per secondo, con poche opportunità di trovarsi a descrivere qualcosa che segua un filo logico intelligibile o, quanto meno, identificabile e che contraddistingua la musica per più di una manciata di secondi. Non è che le ritmiche siano mozzafiato o frenetiche, intendiamoci. Spesso, anzi, l’andatura è abbastanza controllata e le accelerazioni non sono frequenti. In particolare notiamo che la traccia più movimentata e heavy sia proprio quella d’apertura mentre, per contro, quelle più tranquilla, e anche forse la più lineare (per lo meno nella sua prima metà), sia proprio quella che chiude l’intero album, caratterizzata, oltre che da un leggero sapore folk, da un finale in cui finalmente le atmosfere si allargano e si illuminano.
La spinta a farci riascoltare l’intero album deve essere realmente motivante, dato che a stento siamo usciti vivi dal primo ascolto ma la voglia di scovare le innumerevoli chiavi di lettura per orientarsi all’interno di questo moloch sonoro è certamente una spinta sufficiente a volersi avventurare di nuovo al suo interno… ma non subito, ovviamente.



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Alberto Nucci

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