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THE DUES Ghosts of the past Sixteentimes Music 2019 SVI

Come sta ad indicare il titolo di questa nuova uscita del trio svizzero, la band è ormai del tutto intenta a ricercare i cosiddetti “fantasmi del passato”, intesi come i punti di riferimento dei seventies, in questo caso specifico nel campo hard-rock. Sì, perché nessuno parli cortesemente di prog e/o affini. Tra l’atro, la band proveniente da Winterthur (Zurigo) si è ulteriormente indurita. Nella loro discografia cominciata ufficialmente nel 2016 con “Thief of Time”, questo del 2019 viene riportato come il terzo album; andando a guardare sul relativo bandcamp, invece, vien fuori che il vero e proprio esordio è stato “Pay Your Dues” nel 2013 su vinile, a cui è seguito l’anno successivo “Live at Albani”. Sempre di hard-rock si trattava, che suonava però sicuramente più leggero, allo stesso tempo ammantato di una coltre psichedelica dalle reminiscenze Hendrixiane. Dopo il secondo “Time of Machine” (2017), ecco nel 2018 lo split album “Cat/Dog” in compagnia dei Restock, Formato da Pablo Jucker (voce e chitarra), Dominik Jucker (batteria) e Stefan Huber (basso), il terzetto elvetico ha di sua sponte inquadrato il proprio progetto come heavy rhythm ’n’ blues, quindi qualsiasi eventuale riferimento al progressive rock appare assolutamente casuale. I modelli a cui guardare sono piuttosto i Cream, i Sir Lord Baltimore, i Captain Beyond, i Cactus, qualcosa dei Granicus, mettendoci magari anche in mezzo la vocazione da energico power trio in stile Grand Funk Railroad.
Se proprio si deve ricercare qualche elemento prog, lo si potrebbe rintracciare nei controtempi intricati dell’iniziale title-track, che però poi si alternano con l’andamento cadenzato tipico dei Black Sabbath. A proposito di quest’ultimi, “Something for my mind” deve molto a “The Wizard”, anche se in versione molto più accelerata. Notevole l’assolo sulle sei corde di “Sails of misery”, sia dal punto di vista tecnico che da quello dell’energia profusa, mentre “Under the sea” è più articolata, richiamando ancora il Sabba Nero. Qui però si coglie un elemento che fa capolino anche nel resto dell’album: la voce a volte tende a stridere e sembra non importare affatto se non ci si inquadra in un giro orecchiabile. Così, soprattutto con la successiva “Love”, il modello musicale contemporaneo maggiormente prossimo sembra quello dei Firebird di Bill Steer. “Element of doubt” sciorina ancora un grande assolo, mentre “Somewhere” ha una ritmica frizzante e complessa, prima che si aprano le sinapsi in chiave psichedelica. “La realidad” è cantata in spagnolo, molto nasale, ricordando nella sua frenesia blues (trasfigurata dalla lisergia) i Clear Blue Sky. Chiude “Ley lines”, che conferma quanto sentito in precedenza, salvo stupire ancora una volta nel break solista: dapprima visionario e poi… da corsa.
Una quarantina di minuti belli tosti, in cui si propugna una formula rock molto “quadrata”, la cui struttura è piuttosto semplice, suonata però da musicisti che hanno imparato bene le varie lezioni e che le applicano in forza di un bagaglio tecnico divenuto piuttosto elevato.



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Michele Merenda

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