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DISPLACE Accidental autoprod. 2022 USA

Displace è una band della Florida formatasi nel 2012 e giunta al suo terzo album… già con il quarto in cantiere. Il gruppo è guidato da Chris Sgammato, di professione architetto, portavoce e ideatore di tutti i concept degli album (così complicati e bizzarri che egli stesso sembra reticente nel volerli descrivere), che si occupa delle parti vocali, sax e chitarra; accanto a lui ci sono Chris Barbosa al violino elettrico e alle tastiere, Evan Thibeault alla batteria e tal “D Truth The Professional” al basso e synth.
La band è nata per fare musica guidata dall’improvvisazione e dalla sperimentazione ma in questo suo terzo lavoro, che è il primo che abbiamo avuto modo di ascoltare, è caratterizzata da un imprinting jazzistico e fusion, con progressioni funky e momenti decisamente più accessibili e sinfonici che rendono l’ascolto generale interessante e ricco di spunti.
L’album inizia con “Redefine”, brano dai connotati piuttosto pop ma che mostra già soluzioni complesse e ritmiche intricate. Il brano confluisce direttamente nel successivo “Caverns”, senza soluzione di continuità (e sarà così per tutta la durata dell’album), che comincia ad acquisire un respiro e un groove più ampio, con un cantato piacevolmente melodico ma sostenuto da motivi ricorrenti e ripetitivi di tastiere, inserti di violino e una ritmica nervosa che via via fanno salire il climax facendoci entrare nel vivo dell’opera. In “Crippling Self Doubt” è il lamento espressivo del violino che la fa da protagonista e costituisce l’intelaiatura di un brano dalle sonorità oscure e tormentate, interamente strumentale, che ci porta a volare alti. Scendiamo repentinamente a terra con la successiva “Last of Their Kind”, canzone dalle sonorità più robuste e in cui la voce si eleva verso altezze non ancora raggiunte, potente ma non aggressiva; finalmente anche la chitarra si fa sentire, uscendo dal ruolo di comprimaria finora rivestito.
Con “Scarecrow” ci prendiamo una piccola pausa con un brano introspettivo un po’ west coast, funky ed accessibile, con una ritmica più ordinata e regolare. “Rabbit” è invece il brano più lungo del lotto, coi suoi 9 minuti e spiccioli che tuttavia sembrano contenere due canzoni, visto che intorno alla metà del percorso il brano cambia pelle, virando su territori ed umori più placidi, col violino che ci prende per mano e ci guida in modo amichevole e rassicurante fino al termine.
“Saving Myself” è l’ultimo brano e chiudiamo su atmosfere delicatamente pop, piacevoli e comunque meno banali di quanto potrebbero apparire, benché decisamente meno attraenti del resto di questo bellissimo album che trovo assolutamente sorprendente. Un gruppo che, per quanto mi concerne, sembra sbucato fuori dal nulla e che mi ha sorpreso in modo decisamente positivo.



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Alberto Nucci

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